Da Darwin all’epigenetica: flessibilità di un programma di ricerca
La modernità di Darwin si rivela anche nell’adozione di una prospettiva plurale sull’evoluzione biologica, capace di integrare una varietà di processi esplicativi, ancora oggi di grande importanza in biologia
Darwinismo e lamarckismo sono da molto tempo, ed erroneamente, polarizzati. È fin troppo comune, nei libri di testo e nell’immaginario collettivo, opporre la teoria dei caratteri acquisiti e dell’evoluzione progressiva, alla selezione naturale e ad un’evoluzione lasciata al ‘caso’. Tuttavia, la storia dell’evoluzionismo moderno è molto più complessa, e non può essere facilmente costretta entro definizioni rigide ed immutabili (si veda qui) .
Un nuovo studio pubblicato su History and Philosophy of the Life Sciences , a firma di Mariagrazia Portera e Mauro Mandrioli, rispettivamente docenti presso l’Università di Firenze e di Modena e Reggio Emilia, getta nuova luce sulla nozione di azione abitudine (habit) e istinto nel pensiero di Charles Darwin, seguendone lo sviluppo dalle prime opere, i Taccuini (1836-1844), sino agli ultimi scritti pubblicati agli inizi degli anni Ottanta dell’Ottocento. Attraverso questo lavoro, che unisce storiografia e biologia contemporanea, è possibile notare ancora una volta l’importanza dell’eredità intellettuale di Darwin, che può essere riassunta in due punti: un pluralismo teorico attento alla raccolta di nuove evidenze empiriche, e un pluralismo metodologico che mina alla base una storiografia a compartimenti stagni.
In relazione al primo punto, bisogna notare come il giovane Darwin, nel corso del suo soggiorno a Edimburgo, fosse venuto a conoscenza delle idee lamarckiane sull’ereditarietà dei caratteri acquisiti e sul ruolo preminente delle circostanze ambientali sulla modificazione delle parti organiche. L’importanza di questi fattori era stata già compresa da altri studiosi, e in un certo senso erano parte del pensiero non accademico: lo stesso Erasmus Darwin, nonno di Charles, sosteneva la trasmissione transgenerazionale dei caratteri acquisiti.
Se infatti col tempo si è assistito ad una crescente separazione della conoscenza scientifica da quella ‘popolare’, nei secoli passati tale separazione non era così netta: lo stesso Darwin, per i suoi studi, si riferì all’esperienza di comuni allevatori di piccioni traendone numerose intuizioni.
Darwin, nei Taccuini, diede importanza all’influenza ripetuta di determinati comportamenti nell’origine e acquisizione di abitudini che, con il tempo e con le ripetute ‘impressioni’ lasciate sulla struttura cerebrale, si sarebbero trasformati in istinti: questo quadro sarebbe cambiato in maniera considerevole dopo la stesura de L’origine delle specie (1859). È in quest’opera che Darwin espone la sua teoria imperniata sulla selezione naturale, un principio per il quale le variazioni generatesi negli individui di una popolazione sarebbero state preservate o eliminate a seconda della maggiore o minore utilità che fornivano ai loro possessori. È proprio nel capitolo VII, dedicato alla formazione degli istinti animali, che Darwin enfatizza questo cambio di prospettiva nel suo pensiero. Ciò non vuol dire che per l’abitudine non ci sia più spazio. Da un lato, infatti, alla selezione naturale è riconosciuto un ruolo fondamentale ma non esclusivo tra i processi evolutivi; dall’altro le opere successive all’Origine, in particolare quelle dedicate alla botanica (si veda anche questo articolo di Pikaia), continuano a sottolineare il ruolo dell’abitudine e delle circostanze ambientali, anche se non più nello stessa ottica degli scritti giovanili.
In relazione al pluralismo metodologico, invece, bisogna rilevare la crescente attenzione verso l’epigenetica, un’area della biologia evoluzionistica che studia i cambiamenti che non portano direttamente all’alterazione del genoma, ma che hanno un considerevole ruolo nell’evoluzione transgenerazionale, come ad esempio gli stress dovuti a denutrizione che dalla generazione parentale sono trasmessi a quella filiale.
Imperniata sull’idea che le circostanze ambientali possano influire, anche positivamente, sugli adattamenti popolazionali, e che un certo grado di plasticità fenotipica sia necessario perchè ciò avvenga, l’epigenetica ha portato a rivalutare quei fattori etichettati come neo-lamarckiani e guardati con sospetto da molta biologia Novecentesca. Attraverso nuovi studi, e in particolare quelli di Eva Jablonka, è stato possibile apprezzare appieno i mutamenti epigenetici (Pikaia ne ha parlato qui).
È il caso, ad esempio, di alcuni comportamenti parentali nei ratti che alterano i processi di metilazione del DNA (Pikaia ne ha parlato qui) nei cuccioli, influenzandone l’espressione genica e lo sviluppo cerebrale; della repulsione verso determinati odori, in seguito all’esposizione parentale agli stessi. In ultimo, notevole è il caso degli effetti transgenerazionali della carestia che colpì l’Olanda tra il 1944 e il 1945. I figli delle donne che durante la gravidanza erano state esposte a malnutrizione furono colpiti in maniera significativa da malattie cardiovascolari e obesità, patologie che talvolta afflissero anche la generazione successiva. Inoltre, Darwin si focalizzò su casi di apprendimento attivo, e recenti studi hanno mostrato come processi epigenetici possano avere un ruolo importante nella stabilizzazione di simili comportamenti, come lo sviluppo e formazione della memoria.
In conclusione, gli autori dell’articolo notano tre momenti fondamentali in cui si articola il pensiero darwiniano in relazione al tema dell’abitudine e dell’istinto. Il primo, con accenti lamarckiani, attraversa i Taccuini giovanili; il secondo coincide con la pubblicazione de L’origine, in cui l’emergenza e lo sviluppo degli istinti vengono spiegati attraverso il principio di selezione naturale; il terzo, infine, riscontrabile in testi più tardi come la quarta edizione de L’origine (1869), testimonia un’integrazione più marcata fra il principio di selezione naturale ed altri fattori, come le condizioni di vita esterne, e discute fenomeni che oggi fanno riferimento all’epigenetica. È proprio l’effetto delle condizioni di vita esterne la chiave che permette a Darwin di risolvere un problema apparentemente insolubile: quello della sterilità delle formiche operaie. Attraverso l’influenza delle circostanze, ritiene Darwin, membri della stessa specie finirebbero per acquisire caratteri diversi, e in tal modo alcune formiche diventerebbero sterili mentre altre conserverebbero la fertilità.
Cosa direbbe Darwin se potesse vedere i progressi conseguiti in oltre un secolo e mezzo? Probabilmente accoglierebbe positivamente queste scoperte. La forza della formulazione darwiniana originaria (o si dovrebbe parlare di formulazioni?), risiede proprio in questo: nella capacità di dispiegare una vasta gamma di strumenti concettuali ed empirici che permettono alla teoria una notevole flessibilità. È proprio questo genere di pluralismo che va enfatizzato e recuperato affinché una molteplicità di prospettive possa gettar luce sulla diversità del mondo biologico.
Riferimenti:
Portera, M. e Mandrioli, M (2021), Who’s afraid of epigenetics? Habits, instincts, and Charles Darwin’s evolutionary theory, History and Philosophy of the Life Sciences, 43 (20): 1-23
Immagine: John Collier, Public domain, via Wikimedia Commons
Consegue la laurea triennale in Antropologia evoluzionistica presso l’Università di Liverpool (2020) e magistrale in Filosofia della biologia e delle scienze cognitive presso l’Università di Bristol (2021). Interessato alla storia delle idee, con particolare riferimento a Darwin, si avvicina alla storia della filosofia, su tutte quella medievale e moderna