Dai musei universitari al cambio storiografico degli studi sulle donne e la scienza: intervista alla prof.ssa Elena Canadelli
Per la rubrica “L’evoluzione non ha genere” abbiamo intervistato la professoressa Elena Canadelli dell’Università di Padova. Tra i temi toccati: le collezioni universitarie, l’evoluzionismo in Italia, la storia delle donne nella scienza, e il rapporto tra scienza e cinema.
Durante il Rinascimento italiano, oltre ai capolavori dell’arte e dell’architettura, vi fu il risveglio delle scienze naturali. Protagonisti sono stati Ulisse Aldrovandi e un piccolo gruppo di medici, farmacisti e naturalisti di alcune città italiane. Possiamo dire che, per la prima volta, i naturalisti studiarono animali e piante in natura, anziché solo sui libri?
Sì, intorno alla metà del Cinquecento cambia l’approccio allo studio della natura. Nel XVI secolo vengono riscoperti i classici, che erano stati tramandati tramite manoscritti, copie, codici, e dove le immagini rappresentavano un elemento problematico. Mi spiego meglio: l’uso delle immagini in botanica, per esempio, sollevava dubbi sulle capacità dei copisti, sulla veridicità delle fasi di sviluppo della pianta rappresentata e sull’autenticità stessa delle osservazioni. L’uso delle illustrazioni nelle scienze naturali ha lo scopo di rendere riconoscibili e identificabili piante e animali. Alla metà del Cinquecento vengono ripresi, per esempio, i testi di Dioscoride Pedanio, medico attivo nel I secolo d.C., autore del trattato di farmacologia De materia medica, e inerenti alla botanica medica. La novità è rappresentata dagli erbari illustrati del Cinquecento, frutto di un confronto diretto con la natura.
Quindi, la botanica medica acquisisce sempre più valore scientifico e, in questo clima di riscoperta dei classici, si inserisce anche la nascita degli orti botanici. Può citare qualche studioso rappresentativo del periodo?
Le piante venivano coltivate negli orti botanici universitari, soprattutto a Pisa e Padova, proprio quando furono pubblicate importanti opere illustrate: per esempio, Historia Naturalis di Ulisse Aldrovandi, naturalista e docente in Logica, Filosofia e Filosofia naturale (1522-1605) o De historia stirpium di Leonhart Fuchs (1501-1566), uno dei padri della botanica rinascimentale, solo per citarne alcuni. Essi utilizzarono soprattutto illustrazioni xilografiche (procedimento di stampa con matrici lignee, incise a rilievo), facilmente riutilizzabili. Nello stesso periodo, anche Pietro Andrea Mattioli (1501-1578), medico e botanico senese, riscoprì Dioscoride: egli fu autore del volume Commentarii in sex libros Pedacii Dioscoridis Anazarbei de materia medica (“Discorsi” o “Commentarii sull’opera di Dioscoride”), che rimase un punto di riferimento per i botanici almeno per tutto il XVII secolo. Mattioli esprime le sue opinioni su quello che dicono gli antichi, in particolare Dioscoride, su piante medicinali e materia medica. Il testo di Mattioli non contiene solo immagini xilografate di grandi dimensioni ed elevata accuratezza e precisione, ma descrive all’incirca 1200 specie (l’opera dioscoridea ne conteneva quasi 600), comprese piante provenienti da luoghi esotici o dal nuovo mondo. Quindi, gli studiosi del Cinquecento si ispirarono alle opere tramandate, ma le aggiornarono grazie alle osservazioni dal vero delle piante. Gli orti botanici, in tale contesto, sono parte attiva della rivoluzione in atto: le piante venivano osservate dagli studenti e dai docenti di medicina e illustrate, con stili molto diversi.
A Padova l’Orto rinascimentale e il Giardino della biodiversità sono stati recentemente completati dall’inaugurazione del nuovo Museo Botanico, di cui è responsabile scientifica. Il Museo fornisce al visitatore un viaggio tra botanica, medicina e farmacia. Lungo il percorso si incontrano tanti uomini di scienza, ma anche alcune scienziate, come Silvia Zenari e Maria Sybilla Merian, entrambe trattate dalla rubrica “L’evoluzione non ha genere”. Qual è lo stato di salute delle raccolte accademiche?
Le collezioni e i musei universitari favoriscono la valorizzazione della conoscenza e hanno un impatto culturale, economico, educativo sulla cittadinanza. Le collezioni universitarie sono perlopiù scientifiche, tranne rari casi come quelle archeologiche o inerenti alle scienze dell’educazione e all’arte. Le raccolte di natura scientifica, formatesi con finalità didattiche e di ricerca a partire dall’Ottocento, abbracciano diversi rami del sapere scientifico: dalla botanica alla geologia, dalla paleontologia all’antropologia. Tuttavia, queste preziose collezioni hanno attraversato un periodo di forte crisi nel corso del Novecento: la didattica non le utilizzava più molto, il paradigma di ricerca era cambiato tra sistematica e biologia. Anzi, la situazione si capovolse: le collezioni da risorsa divennero un peso di gestione per i dipartimenti. Al giorno d’oggi, invece, le collezioni universitarie si legano alla terza missione. Quest’ultima affianca le due principali funzioni dell’università, ricerca scientifica e formazione, con il nobile mandato di diffondere cultura, conoscenze e trasferire i risultati della ricerca al di fuori del contesto accademico, contribuendo alla crescita sociale e all’indirizzo culturale del territorio. Non si tratta solo di un’apertura verso la cittadinanza e al sistema scolastico, ma anche all’interno dell’ambiente universitario, fuori dalla comunità disciplinare.
Le collezioni accademiche e la terza missione universitaria stanno trovando perfetta sintesi nell’esteso e variegato sistema museale accademico italiano?
In effetti, la terza missione ha dato il via a numerosi progetti di valorizzazione, di cambio di narrazione e di uso e riuso delle collezioni accademiche. Le principali funzioni delle collezioni continuano a essere anche legate alla didattica e alla ricerca – non possono e non devono perdere questo statuto -, ma si aprono a una narrazione più ricca che abbraccia la storia, la scienza, l’archeologia, la geografia.
I musei universitari e scientifici in generale stanno gradualmente coinvolgendo in maniera attiva i cittadini nella raccolta, analisi e interpretazione di dati a fini scientifici. Si parla di citizen science, o scienza partecipata.
I musei universitari rappresentano un patrimonio di assoluto valore sia storico-artistico sia scientifico e anche in futuro saranno luoghi interessanti per la sperimentazione museale, per la citizen science e per i giovani che si affacciano a una nuova professione. Credo che stando molto attenti a mantenere la funzione di didattica e ricerca, aprendole ad un pubblico più ampio, si abbia un effetto positivo anche in ambiti che non sono solo diffusione e disseminazione.
Qual è la principale sfida, a suo avviso, che le raccolte museali universitarie si trovano ad affrontare?
Secondo me le sfide sono due: una è verso l’esterno e l’altra verso l’interno. Mi spiego meglio. Fino a pochi anni fa era impensabile che un museo universitario diventasse meta turistica. E, invece, come dimostra anche l’Orto Botanico di Padova e il Museo Giovanni Poleni di fisica, è possibile. Il connubio tra storia, architettura rinascimentale e biodiversità dimostra come, aprendosi ad un pubblico ampio, esso sia diventato un luogo importante del tessuto cittadino. La sfida verso l’esterno va vinta in base alle potenzialità e possibilità di ricezione di una struttura. C’è poi una sfida interna all’università, meno visibile: per esempio, molti studenti non conoscono le collezioni dell’università che frequentano. Non si tratta solo di un presunto spirito di appartenenza: gli studenti dovrebbero sentire propri i patrimoni accademici. Le collezioni universitarie, infatti, potrebbero essere il punto di partenza di progetti di ricerca trasversali. Spesso, invece, sono state oggetto di ricerca didattica tutta interna alle discipline. Le collezioni accademiche sono un’opportunità di didattica interdisciplinare e uno stimolo a porsi domande. Inizia così un percorso di apprendimento anche contenutistico, che consente di conoscere le collezioni e giungere ad una riflessione sulle metodologie della didattica.
Dedichiamoci adesso all’evoluzione. Molti sono stati gli studiosi che hanno preparato il terreno a Charles Darwin. Tra questi vi è anche Giovanni Canestrini (1835-1900), docente di zoologia e anatomia comparata dell’Università di Padova e persona impegnata sul fronte politico con posizioni laiche. Qual era il clima in cui fu accolta la teoria dell’evoluzione in Italia?
La società italiana, anche per motivi socioeconomici, era molto diversa da quella Vittoriana. La divulgazione scientifica popolare ebbe inizio nella seconda metà dell’Ottocento, in un paese recentemente riunificato. L’origine delle specie, l’opera di Darwin più nota, fu pubblicata nel 1859, quando in Italia si stava concludendo il processo unitario. Canestrini arrivò a Padova nel 1869, anno in cui vi fu la ristrutturazione dei curricula degli studi universitari che ebbe luogo poco dopo l’annessione del Veneto al Regno d’Italia (1866). Fu istituita la Facoltà di Scienze e la cattedra di Storia Naturale venne sdoppiata, separando Geologia e Mineralogia, affidate a Giovanni Omboni (1829-1910), da Zoologia e Anatomia Comparata, affidate a Giovanni Canestrini. Canestrini è noto soprattutto per le sue traduzioni dell’opera L’origine delle specie e degli altri libri di Darwin e i suoi volumi sull’evoluzionismo. In Italia, la diffusione dell’evoluzionismo coincide anche con la nascita di enti di ricerca e di didattica. Giovanni Canestrini è stato un divulgatore calmo e limpido nella diffusione delle idee evoluzionistiche: è una divulgazione che si attesta sui dati scientifici.
In quel periodo, tuttavia, non tutti avevano lo stile di Canestrini e la teoria dell’evoluzione fu oggetto, in Italia, di attacchi molto forti. Per esempio, come afferma Alessandro Minelli in Centocinquant’anni di zoologia a Padova (1869-2019), “Canestrini fu spesso oggetto di attacchi violenti da parte di chi respingeva l’evoluzionismo sulla base di motivazioni religiose”.
Non tutti i seguaci dell’evoluzionismo darwiniano hanno avuto lo stesso stile di divulgazione, e anche l’adesione all’evoluzionismo fu al suo interno molto diversificata. Per esempio, Cesare Lombroso (psichiatra e antropologo, 1835-1909) e Paolo Mantegazza (medico e antropologo, 1831-1910), puntarono su una carriera personalistica. Ciò che non è noto, ed è da approfondire, è capire se Giovanni Canestrini sia stato osteggiato a Padova, a livello cittadino (si ricordi che aveva un incarico al comune, NdA) e universitario. Ha tenuto prolusioni sull’evoluzionismo e ha fondato l’istituto di antropologia fisica: questo fa pensare che non avesse veti, ma sarebbe interessante approfondire il tema. All’epoca, La civiltà cattolica era uno dei periodici più critici dell’evoluzionismo. Il panorama era molto variegato e gli stili di divulgazione diversi: da una parte Canestrini; dall’altra Mantegazza; poi, degno di nota, è il lavoro compiuto da Filippo de Filippi (Zoologo, medico e viaggiatore scientifico, 1814-1867). Egli accoglie la teoria di Darwin, prendendo posizione contro il creazionismo e aprendo discussioni e controversie non solo in campo scientifico. Nella molteplicità di stili, Canestrini è pacato, un vero divulgatore scientifico e non un pubblicista da proclami.
Giovanni Canestrini fece parte di una comunità di darwiniani, tra i quali vi sono Angelo Mosso, Michele Lessona, Paolo Lioy. Questi non aderirono affatto all’immagine della donna offerta da Darwin nell’opera di The descent of man. Qual era, qualora fosse nota, la posizione di Canestrini sulle donne?
Al momento, non ho avuto modo di approfondire la posizione di Canestrini sulle donne. È un’interessante ipotesi di ricerca. Non escludo, tuttavia, che, trattandosi di un argomento su cui non c’erano dati scientifici, Canestrini non lo abbia preso in considerazione.
Lei è presidente della Società Italiana di Storia della Scienza (SISS). La storia della scienza racchiude in sé la travagliata storia delle donne nella scienza, un percorso non solo scientifico, ma anche socioculturale. Qual è lo stato dell’arte della storia delle donne nella scienza in Italia?
Posso affermare che è un filone senza dubbio in crescita. Per esempio, Marta Cavazza, esperta di storia delle istituzioni scientifiche italiane ed europee e di storia delle donne nel Settecento, ha studiato Laura Bassi, Massimo Mazzotti, la figura di Maria Gaetana Agnesi. Vorrei legare il filone degli studi sulle donne e la scienza a un cambio storiografico: la storia della scienza non dev’essere intesa semplicemente come una storia di successi, di eroine o reiette, ma un tessuto complesso che si costruisce nei secoli. Si tratta di un cambio storiografico più ampio che ha consentito di avere una visione più corretta: le polarizzazioni ci rassicurano, ma non riflettono necessariamente la realtà. Invece, il cambio storiografico ci consente di rivalutare e ristudiare protagoniste di tutti i giorni: Silvia Zenari non ha cambiato le sorti della biogeografia italiana, ma ha dato un notevole contributo all’arricchimento di una collezione scientifica come quella dell’Erbario di Padova. Questi non sono ruoli marginali, ma ruoli di una scienza che viene vista per quella che è, nel suo farsi quotidiano. La proposta di un cambiamento storiografico è stata avanzata anche dalla prof.ssa Paola Govoni, da un punto di vista sociologico; dalla prof.ssa Federica Favino e dalla dott.ssa Francesca Antonelli, da un punto di vista di storia dei saperi. Approcci diversi che si intrecciano alla storia moderna e contemporanea, alla storia della scienza. Come Società Italiana di Storia della Scienza vorremo incentivare di più un confronto su questi temi.
Lei è stata autrice di un saggio in cui ha analizzato il rapporto tra scienza e cinema. Il cinema è un efficace strumento educativo, divulgativo, e di dialogo con molteplici campi del sapere. Un’alleanza mediale tra scienza, cinema, istruzione e musei potrebbe alimentare la cosiddetta scientific literacy, soprattutto in Italia dove, secondo i risultati PISA 2018, gli studenti hanno difficoltà nelle prove di scienze?
Sì, ma con cautela perché spesso il cinema tende ad esagerare e amplificare. Esso, infatti, è legato al filone science fiction, fantascienza, immaginario. In aggiunta a questi, c’è il filone documentaristico. Per esempio, il film su Galileo di Liliana Cavani non è una produzione documentaristica, ma si presta molto alla didattica perché è utile per entrare nell’epoca. Se penso a Darwin, Creation (2009) è un ottimo film: consente di immergersi nel laboratorio di Darwin, nella sua mente, nella sua famiglia, nella società Vittoriana del suo tempo. Questi esempi sono ottimi strumenti didattici in quanto rappresentano sia una fonte di informazioni sia strumenti per contestare delle idee. Potrei citare altri film capolavori tratti dalla letteratura di science fiction: per esempio l’isola del Dottor Moreau (1977)
, dal romanzo di H. G. Wells; Mondo perduto (1960), prende spunto dal romanzo di Conan Doyle ecc. La tradizione cinematografica è ricca di esempi, ma l’aspetto più interessante è verificare idee quasi per assurdo. Il cinema può farlo e può essere un utile esercizio per riflettere. Un’alleanza solida potrebbe instaurarsi tra cinema, scienza e didattica, a patto che l’educatore faccia le premesse necessarie: è un linguaggio perlopiù comprensibile; è possibile far notate come alcune idee scientifiche siano state travisate nei secoli; è vitale evidenziare l’errore e/o l’interpretazione scorretta degli scritti storico-scientifici.
L’incontro con la Prof.ssa Elena Canadelli ci ha condotto alla scoperta dei musei di storia naturale e alla comprensione del ruolo importante che ricoprono le collezioni accademiche nello sviluppo della società. I musei universitari hanno cambiato fisionomia e ruoli nel corso dei secoli a partire dal Rinascimento: da luoghi privati divennero sempre più aperti al pubblico, mostrando la loro funzione educativa. Oggi rappresentano un luogo di ricerca, di ausilio alla didattica e di divulgazione.
Per approfondire:
Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ad ottobre 2022 ho concluso il Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia.