L’eredità genetica dei Neanderthal nei sapiens: storia dell’incontro tra due umanità

Low Res Neanderthal MH

Dal genoma di sapiens antichi e moderni è stata recentemente ricostruita la cronologia dell’incontro tra i nostri antenati e i neanderthal. Abbiamo chiesto a Leonardo Iasi, ricercatore al Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Lipsia, e primo autore dell’articolo pubblicato su Science, di approfondire alcuni aspetti della ricerca

I Neanderthal e i sapiens si sono incontrati e incrociati fuori dall’Africa in un unico evento prolungato durato circa 7.000 anni, dai 50.500 ai 43.500 anni fa.

Questo ha portato all’introgressione di DNA neandertaliano in Homo sapiens: le attuali popolazioni non africane conservano 1-2% di alcuni segmenti “arcaici” nel proprio genoma.

Non è chiaro se gli incroci siano avvenuti in modo continuo e regolare, ma certamente questo flusso genico durato millenni ha avuto implicazioni sull’evoluzione umana.

È quanto emerso dalla ricerca guidata da Leonardo Iasi, ricercatore post-doc del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology. Iasi lavora sotto la supervisione di Svante Pääbo e Benjamin M. Peter ed è è specializzato nello sviluppo di strumenti informatici che analizzano il DNA per riconoscere le tracce lasciate da antichi incontri tra esseri umani moderni e popolazioni umane arcaiche. I risultati sono stati pubblicati alla fine dell’anno scorso sulla rivista Science.

I ricercatori hanno analizzato il genoma di 334 individui, di cui 275 esseri umani moderni che fanno parte del Simons Genome Diversity Project e 59 individui antichi di età compresa tra i 45.000 e i 2.200 anni. Di questi ultimi, 33 individui sono datati a più di 10.000 anni fa.

Il DNA dei campioni è stato suddiviso in piccolissime porzioni e analizzato un segmento alla volta con un sofisticato software probabilistico (admixfrog), che ha stimato se ogni porzione fosse di origine neandertaliana o sapiens, basandosi sulla provenienza genetica del pezzo precedente.

Questo metodo risulta particolarmente efficace per la ricostruzione del DNA antico, spesso degradato o contaminato, in quanto consente di minimizzare gli errori. Ha infatti permesso, per la prima volta, di ottenere una mappa dettagliata delle regioni del genoma umano che contengono DNA di origine neandertaliana.

L’evoluzione del genoma umano dopo l’incontro con i Neanderthal

Secondo i dati, in tutti i sapiens non africani, antichi e moderni, sono presenti segmenti di DNA neandertaliano, ma i più antichi presentano una maggiore quantità di segmenti neandertaliani unici, cioè quelli presenti in un singolo individuo o in pochissimi altri e non trasmessi alle generazioni successive.

In questi individui circa il 34% dei segmenti neandertaliani identificati risulta unico, mentre negli esseri umani vissuti dopo i 20.000 anni, inclusi gli umani moderni, la quota si riduce al 6%. Perché?

La diminuzione si attribuisce principalmente alla selezione naturale che, secondo i dati, è avvenuta rapidamente, già entro 100 generazioni dall’introgressione. Ha contribuito anche la deriva genetica, cioè il cambiamento casuale nella frequenza degli alleli all’interno della popolazione, e la ricombinazione, meccanismo che porta alla variabilità genetica, tutti eventi che avvengono fisiologicamente nel corso del tempo.

Il DNA neandertaliano condiviso, cioè quello che si è conservato e diffuso stabilmente nelle moderne popolazioni non africane, invece, è il già noto 1-2%, frutto di una sola grande fase iniziale di mescolanza genetica tra una popolazione di Homo sapiens da poco uscita dall’Africa (evento avvenuto circa 60-70.000 anni fa) e un singolo gruppo di Neanderthal o comunque gruppi strettamente imparentati.

Non risulta nessun altro incrocio particolarmente rilevante nel corso del tempo, anche se non si può escludere l’ipotesi che alcune popolazioni abbiano acquisito ulteriore DNA neandertaliano in successivi eventi di

scambio.

word image 73992 1 2
Immagine che sintetizza dati e risultati della ricerca. Dalla pubblicazione

Cosa resta dei Neanderthal nel nostro DNA? La parola al dottor Leonardo Iasi

A Leonardo Iasi abbiamo chiesto in che modo le varianti genetiche di origine neandertaliana che sono state ereditate dai sapiens moderni influenzino il genoma umano. Nonostante siano ancora in corso molte ricerche per capire più profondamente il loro impatto sulla nostra biologia e salute, abbiamo già risposte importanti. Nello studio, infatti, sono citati diversi geni tra i quali MC1R, associato alla pigmentazione della pelle e dei capelli, OAS 1, coinvolto nella risposta immunitaria antivirale, e gli alleli TLR, recettori in grado di riconoscere patogeni e attivare una risposta immunitaria. Di questi e di altri geni esistono varianti neandertaliane che condizionano ancora oggi la biologia degli esseri umani moderni non africani e che hanno contribuito all’adattamento dei sapiens agli ambienti fuori dall’Africa.

Gran parte del genoma delle popolazioni attuali non africane contiene segmenti neandertaliani (avete identificato 91 regioni comuni a tutte), ma esistono anche i cosiddetti “deserti genetici”, regioni che ne sono quasi completamente prive, come succede nel cromosoma X. Quali potrebbero essere i motivi? Potrebbe avere a che fare con il fatto che gli incroci tra femmine sapiens e maschi Neanderthal fossero più vantaggiosi?

La scarsità di DNA neandertaliano sul cromosoma X è un’osservazione davvero interessante: è sei volte inferiore rispetto a quella rilevata negli altri cromosomi (detti autosomi). Una prima ipotesi avanzata è quella del flusso genico sbilanciato tra i sessi. Questo significa che, per esempio, sono stati principalmente i maschi Neanderthal a contribuire al mescolamento genetico. Dal momento che un maschio trasmette il cromosoma X solo al 50% dei suoi figli (solo alle femmine), ciò potrebbe spiegare in parte questa differenza. Tuttavia, uno studio recente basato su simulazioni (Chavy et al., 2023) ha messo alla prova questa ipotesi: è stato simulato l’intero scenario evolutivo tra Neanderthal, africani e non africani, e si è visto che i dati reali mostrano una differenza ancora più marcata di quella prevista dalle simulazioni. Questo suggerisce che il semplice flusso genico sbilanciato non basta a spiegare il fenomeno.

Un’altra possibile spiegazione è legata alla selezione naturale contro il DNA neandertaliano. Anche negli autosomi si osserva una certa debole selezione contro questi segmenti di DNA, ma sul cromosoma X che è emizigote, cioè nelle femmine è presente in coppia (come tutti gli altri cromosomi), ma nei maschi è presente in singola copia. Se una variante neandertaliana su un gene del cromosoma X è poco funzionale, nelle femmine può essere “compensata” dalla variante umana sull’altro cromosoma X. Nei maschi, invece, non c’è un’altra copia a compensare, quindi gli effetti negativi di un gene neandertaliano difettoso possono manifestarsi più facilmente, rendendo questi tratti un bersaglio della selezione naturale negativa.

Un terzo punto è che i cromosomi sessuali, in generale, giocano un ruolo importante nei processi di speciazione, cioè quando due popolazioni stanno diventando specie distinte. Potrebbe quindi darsi che, già al tempo dei contatti tra Neanderthal e sapiens, il cromosoma X presentasse incompatibilità genetiche tra le due popolazioni. In questo senso, il DNA neandertaliano sul cromosoma X potrebbe essere stato svantaggioso, e quindi eliminato più facilmente nel corso del tempo.

Il cromosoma 2 mostra invece una concentrazione elevata di sequenze neandertaliane, soprattutto nella regione che contiene geni legati al funzionamento del sistema nervoso. Questo fa pensare che le varianti neandertaliane possano aver offerto un vantaggio evolutivo: sono emersi ulteriori risultati relativi a questo cromosoma oltre a quelli già descritti?

Il cromosoma 2 contiene una regione con la più alta concentrazione di DNA neandertaliano nelle popolazioni antiche e moderne di origine euroasiatica occidentale (almeno nel set di dati utilizzato nello studio).
Nel complesso, questo cromosoma non presenta una quantità
particolarmente elevata di DNA neandertaliano, ma i geni presenti in quella regione specifica sono stati individuati in diversi studi che cercavano segni di selezione positiva. Questo fa pensare che le varianti neandertaliane di quei geni siano state soggette a selezione positiva, cioè che abbiano offerto un vantaggio evolutivo.
Tuttavia, non è ancora chiaro quali siano esattamente questi geni e quale caratteristica concreta abbiano favorito.
Molti ricercatori stanno ancora studiando il fenomeno per comprenderlo meglio.

Lo studio ha confermato che il nostro genoma contiene una percentuale significativa di DNA di Neanderthal (circa il 2%). Uno dei geni citati è OAS 1, le cui varianti neandertaliane hanno ricevuto molta attenzione durante la pandemia di COVID-19 perché coinvolte nella risposta immunitaria al SARS-CoV-2, associate a una maggiore protezione contro le forme gravi della malattia. Ritiene che in generale lo studio dei geni ereditati dai Neanderthal possa essere strategico per migliorare alcune applicazioni terapeutiche?

In effetti, sono state trovate varianti neandertaliane che possono avere correlazioni positive e negative con alcuni esiti di malattia.
Ad esempio, la
variante di rischio per il COVID proveniente dai Neanderthal (che aumenta la probabilità di morire di COVID dopo il ricovero).
Questo ci dà un indizio che
queste varianti genetiche giocano un ruolo durante un’infezione da COVID e potrebbero quindi essere interessanti per studi futuri e potenzialmente diventare un bersaglio per qualche terapia.

In generale, è importante studiare le varianti di origine neandertaliana che si trovano negli esseri umani attuali perché ci permette di capire meglio quali effetti abbiano alcune varianti del genoma su caratteristiche specifiche e sul rischio di sviluppare alcune malattie. Questo, di per sé, rappresenta già un passo fondamentale per comprendere la struttura genetica alla base di molti tratti e patologie.

Il lavoro continua

Ѐ quindi importante continuare ad indagare la storia dell’incontro tra Neanderthal e sapiens: non solo per capire più a fondo la nostra storia evolutiva, ma anche perché alcune conoscenze potrebbero essere utili in ambito medico. Questo studio, in particolare, rappresenta un tassello essenziale per comprendere più profondamente ciò che è accaduto e le conseguenze di quell’incontro, offrendo una versione nuova e più dettagliata del contributo neandertaliano al genoma umano.

Riferimenti: Iasi, L. N. M., Chintalapati, M., Skov, L., Mesa, A. B., Hajdinjak, M., Peter, B. M., & Moorjani, P. (2024). Neanderthal ancestry through time: Insights from genomes of ancient and present-day humans. Science, 386(6727). https://doi.org/10.1126/science.adq3010

Immagine in apertura: Leonardo Iasi, MPI-EVA. Figure created with Dall-E and BioRender.com