Ricostruire il passato della specie umana con la genetica e la linguistica: intervista alla prof.ssa Chiara Barbieri

Dalla genetica alla linguistica, un percorso attraverso popolazioni e culture per ricostruire la storia umana: dalle lingue andine alla relazione tra DNA e identità, fino alle sfide etiche della ricerca, nella nuova intervista di “L’evoluzione non ha genere.
Nell’articolo “Geni, popolazione e lingue” (Le Scienze, gennaio 1992), il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza scriveva:
“Perché l’evoluzione genetica e l’evoluzione linguistica dovrebbero avere una così stretta corrispondenza? La risposta sta non nel determinismo genetico, ma nella storia: i geni non controllano la lingua, ma sono piuttosto le circostanze della nascita a determinare le lingue alle quali l’individuo è esposto.”
(Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popolazione e lingue – Le Scienze, n.281 gennaio 1992, anno XXV, vol. XLVIII).
Cavalli-Sforza (1922-2018) è stato un pioniere degli studi che intrecciano genetica umana e linguistica, ma come si studia oggi questa relazione? E come è possibile coniugare le esigenze della scienza con il rispetto dei diritti delle popolazioni studiate?
Per la rubrica “L’evoluzione non ha genere” abbiamo intervistato Chiara Barbieri, professoressa di genomica evoluzionistica presso l’Università di Cagliari che si occupa principalmente di diversità genetica e culturale umana nelle Americhe.
Darwin aveva paragonato l’evoluzione delle popolazioni e delle specie con l’evoluzione linguistica nel capitolo 13 di L’origine delle specie per selezione naturale, e riteneva che un albero genealogico della specie umana sarebbe stato molto simile a quello linguistico. Luigi Luca Cavalli-Sforza, nel XX secolo, è tra coloro che hanno cercato di scoprire e quantificare la relazione tra il patrimonio biologico e quello linguistico nelle popolazioni del mondo usando la genetica. In ambedue i casi si verificano, nel tempo, piccoli e continui cambiamenti (mutazioni genetiche e mutazioni linguistiche) che vengono selezionati in modi diversi da popolazioni che vivono isolate tra loro. Si tratta, quindi, di una co-evoluzione biologica-culturale. La biologia e la linguistica stanno collaborando per darci un quadro sempre più coerente e preciso della storia e dell’evoluzione umana?
Sì, la linguistica, tra le varie discipline che studiano il nostro modo di essere e le nostre caratteristiche culturali è quella che, secondo me, risulta più utile nelle comparazioni tra analisi della storia biologica. La linguistica non è solo un marcatore identitario delle popolazioni: essa ci consente di descrivere cos’è una popolazione, cioè la nostra unità di ricerca. Le definizioni sono spesso vaghe e arbitrarie, ma necessarie.
“I geni, le popolazioni e le lingue si sono irradiati parallelamente mediante una serie di migrazioni che hanno avuto origine, a quanto pare, in Africa e si sono poi diffuse attraverso l’Asia in Europa, nel Nuovo Mondo e nel Pacifico”
(Luigi Luca Cavalli-Sforza, Geni, popolazione e lingue – Le Scienze, n.281 gennaio 1992, anno XXV, vol. XLVIII).
Quindi, da dove partire?
Il nostro punto di partenza è la lingua: essa ci orienta nel racconto della storia di popolazioni, le quali potrebbero essere gruppi di esseri umani, legati da parentele più o meno strette, che vivono in un ampio territorio. Tra gli anni ’80 e ’90 del Novecento si sono sviluppati espliciti modelli di evoluzione culturale presi in prestito dalla biologia, ma in realtà è dal 1800 che i biologi prendono concetti dalle scienze umanistiche. Per esempio, il concetto di filogenia, ampiamente utilizzato dai filologi e dai linguisti, che possiamo anche chiamare tree-like thinking. Quindi, l’albero, l’evoluzione, sono concetti interconnessi con chi si occupava di filologia linguistica e ciò lo è tuttora.
Come rappresentare l’evoluzione linguistica?
L’evoluzione linguistica è molto interessante perché, differentemente dall’evoluzione culturale, risulta spiccatamente tree-like: la diversità linguistica segue abbastanza una struttura ad albero. Quindi, nella scala temporale, possiamo seguire, dal passato al presente, l’evoluzione e le ramificazioni sufficientemente tree-like tale da applicare un certo tipo di logica e di pensiero. La spiegazione della correlazione tra geni e cultura, come affermava Luigi Luca Cavalli-Sforza, deve essere ricercata nei meccanismi di trasmissione verticale dei geni e orizzontale della cultura. I geni sono trasmessi dai genitori alla prole secondo una traiettoria verticale lungo le generazioni; mentre la cultura (e le lingue) può essere trasmessa anche orizzontalmente, tra individui che non hanno rapporti di parentela.
Generalmente, l’evoluzione delle lingue coincide con quella dei geni di chi le parla, ma gli alberi genetici e linguistici possono divergere. Se ci fermassimo ad uno sguardo “eurocentrico”, allora potremmo dire che la corrispondenza tra le lingue e la genetica è quasi perfetta: in altre parole, le popolazioni geneticamente simili parlano lingue della stessa famiglia e si trovano nella stessa area geografica. Le popolazioni vicine si somigliano geneticamente di più rispetto a popolazioni che sono tra loro lontane nello spazio. Lingue e geni si influenzano reciprocamente, ma come agisce la geografia su di essi?
La corrispondenza tra lingue e geni funziona abbastanza bene in Europa, ma non è sempre così in altre regioni del mondo. A scala più ampia, in alcune zone del mondo, ci sono effetti, come il multilinguismo, che giocano un ruolo importante nel far capire quanto può essere flessibile l’utilizzo delle lingue da parte delle popolazioni. La geografia, in tutti i nostri modelli ecologici, influenza la nostra diversità perché si è più simili alle persone “vicine di casa”, sia di geni che di lingua. Quindi, man mano che ci si allontana, possiamo pensare a una divergenza. Ma, attenzione, non è solo la distanza geografica a raccontarci la storia. A volte, la geografia può entrare in gioco creando barriere, ad esempio montagne o grandi fiumi, che possono separare i gruppi e creare discontinuità sia di geni che di lingua. A volte vediamo che “i vicini di casa” non sono simili geneticamente o linguisticamente e lì troviamo delle storie interessanti. Cosa ha portato questa visibile divergenza genetica e/o linguistica? Forse è proprio lì che troviamo elementi interessanti per raccontare qualcosa in più sulla nostra storia.
Passiamo adesso a suo lavoro del 2022 e la creazione del database GeLaTo (GEnes and LAnguages TOgether), che raccoglie i dati genetici di 4000 individui appartenenti a circa 400 popolazioni, che parlano 300 lingue. Cosa vi ha consentito di scoprire il database?
Il database ha confermato che le popolazioni simili sotto l’aspetto genetico parlano lingue appartenenti alla stessa famiglia, e spesso tendono a vivere la stessa area geografica. Ma a noi interessava trovare casi dove ciò non avviene. Quindi, abbiamo identificato tre situazioni possibili. Nel primo caso, una popolazione può avere uno stretto legame di parentela genetica con altre molto distanti e ciononostante condividere la loro lingua anche se le popolazioni limitrofe ne parlano altre. Ciò è stato definito enclave genetica e linguistica. Un secondo caso individuato riguarda una popolazione che parla una lingua tipica di un’altra parte del mondo, senza legami genetici con le altre popolazioni che parlano lingue simili (enclave linguistica, discrepante rispetto alla genetica). Infine, una popolazione può essere geneticamente imparentata con popolazioni lontane, ma parlare una lingua simile a quella dei popoli vicini (enclave genetica, discrepante rispetto alla linguistica). Nel frattempo, il database è stato aggiornato e ampliato.
GeLaTo può essere utilizzato anche per studiare le relazioni tra geni e cultura? Si è rivelato uno strumento di indagine e studio efficace nell’instaurare collaborazioni proficue?
Il database si è ben prestato allo studio dell’evoluzione culturale con metodi quantitativi, cioè con dati numerici che si possono usare per modelli e analisi. Per esempio, ho collaborato allo studio dell’evoluzione culturale in ambito musicale: la musica come elemento di cultura immateriale nelle popolazioni umane. A questo proposito, colleghi di università australiane e giapponesi hanno curato un dataset di canzoni marcate per 37 caratteristiche fondamentali studiate da musicologi, come, per esempio, il ritmo, la presenza di un coro e/o di un solista ecc. L’analisi del database, contenente migliaia di canzoni associate a diversi gruppi umani, è stata poi confrontata con la diversità linguistica e genetica delle popolazioni in esame per verificare eventuali corrispondenze. A livello globale non ci sono corrispondenze significative tra canzoni e storia genetica delle popolazioni. Tuttavia, in alcune regioni del mondo, sì, ci sono alcune corrispondenze tra storia demografica, linguistica e culturale.
Continuiamo parlando anche dei progressi scientifico-tecnologici nel campo della genetica. Essi ci consentono di avere numerosi dati a disposizione sulla storia umana, ma c’è la necessità di contestualizzarli. Il dibattito sulla diffusione delle lingue intreccia anche filoni evoluzionistici, i dati storici, l’antropologia, la linguistica, la genetica e l’antropologia molecolare. Potrebbe spiegarci di cosa si occupa la genetica di popolazione e quali sono i principali metodi di indagine?
Per studiare la diversità genetica si deve necessariamente partire da un campione rappresentativo di una popolazione. Infatti, un gruppo di qualche decina di persone ci racconta tanto la loro storia genetica quanto quella di tutti i loro antenati. Il metodo di indagine utilizzato è il sequenziamento del DNA, ossia del genoma completo o di parti di esso. Con sequenziamento del DNA si intende il processo con il quale si può leggere la sequenza delle unità che lo compongono (i quattro nucleotidi). Dopodiché si analizzano i dati con una serie di strumenti propri della disciplina, chiamata genetica di popolazione. Quindi, si ricostruiscono genealogie che raccontano non solo una storia personale, ma anche una storia di migrazioni, movimenti e contatti. Le domande che mi pongo sono: quanto sono vicine, dal punto di vista genetico, le popolazioni in esame? Perché le diversità riscontrate a livello di mutazioni (cambiamenti nelle sequenze di nucleotidi) sono più o meno marcate? Quale storia demografica raccontano?
Spostiamoci sulle sponde del lago Titicaca, in Perù. In quel luogo meraviglioso, a quasi 4000 metri di quota si parlano soprattutto due lingue: Quechua e Aymara. Le popolazioni sono geograficamente vicine, sebbene ci sia una potenziale barriera (il lago), ma le due lingue sono diverse. Le lingue Quechua e Aymara hanno sostituito lingue native?
La storia del lago Titicaca è molto interessante: è una regione che ha visto sorgere civiltà complesse, tra le prime del Sud America occidentale. Per quanto riguarda le lingue native vi sono tante domande aperte perché le culture del Sud America non hanno lasciato testi scritti che raccontino la loro storia. Quechua e Aymara erano presenti nel periodo dell’Impero Tiwanaku (o Tiahuanaco), civiltà pre-colombiana; anche le lingue Uru e Puquina, la cui origine è misteriosa, erano altrettanto diffuse e parlate. Quando hanno iniziato ad espandersi queste lingue? Non lo sappiamo con certezza. Resta tutt’ora una domanda aperta, tuttora rilevante per le culture principali della regione.

Lago Titicaca, Perù. Foto: Carmen Troiano
Quechua e Aymara come sono inserite nell’albero delle lingue? Cosa può dirci della genetica delle popolazioni umane intorno al lago Titicaca?
Quechua e Aymara sono lingue di due ceppi linguistici separati: esse non hanno un’origine comune. Vi sono alcune similitudini tra le due lingue (per esempio, condividono formule grammaticali e parole) perché le persone vivono in territori contigui e sono in stretto contatto. Questi due gruppi linguistici coesistono in maniera molto flessibile: è noto, storicamente, che alcune zone, dove si parlava Quechua un tempo, hanno subito un processo di “aymarizzazione”, ossia un processo di cambio linguistico (language shift). La lingua parlata, in tal modo, non acquisisce un senso identità stabile e continuativo nel tempo, ma assume un senso di identità che riflette un momento più recente in questa parte del mondo. Si tratterebbe di un’eccezione al profilo più comune presente nella storia dei popoli.
Passiamo dalle lingue ai popoli. Più di mille anni fa, i Chachapoya controllavano una vasta regione situata tra i fiumi Huallaga e Marañon. Il suo lavoro del 2017 sfida un’idea comune, cioè quella secondo la quale il popolo Inca delocalizzò le popolazioni e diffuse la lingua Quechua. Ma i vostri risultati hanno mostrato che la diffusione della lingua Quechua in quella regione non avvenne per migrazioni, ma per diffusione culturale. Ci può dire come conduceste quel lavoro?
Spostiamoci nel nord del Perù e troviamo una regione dalla forte identità e dalla cultura radicata. La cultura Chachapoya risulta in quella regione almeno dall’Ottocento e l’analisi genetica ha mostrato profili genetici locali. Anticamente, si parlava una lingua denominata Chacha, la quale si è estinta e di cui si sa poco. Tuttavia, è possibile ricostruirne alcune caratteristiche dai toponimi della regione. Solo in seguito fu introdotta la lingua Quechua, come conseguenza della presenza Inca o dei gruppi pre-incaici. Purtroppo, si sa molto poco della storia pre-ispanica: siamo a conoscenza solo di ciò che ci è tramandato e raccontato dagli Inca. In pratica, quando gli emissari del governo spagnolo visitavano la regione entravano in contatto con i rappresentati del governo Inca e questi hanno trasmesso ai posteri la loro versione della storia. Gli Inca avevano espanso un impero per tutti i cantoni della regione, da nord a sud, dall’est all’ovest, dominando i gruppi locali. Ma è necessaria una precisazione: gli Inca non erano una popolazione, ma una élite dominante, cioè un gruppo che si è espanso ed è riuscito a creare relazioni politiche con le persone che già vivevano i luoghi occupati e, soprattutto, che già parlavano una loro lingua. I gruppi dominanti Inca raccontano di aver conquistato queste regioni e di aver punito con la dispersione i gruppi più belligeranti. Tra questi vi erano anche i Chachapoya, che non volevano essere sudditi Inca. Secondo le cronache testuali, gli Inca avrebbero rimpiazzato e rilocalizzato tutti i Chachapoya belligeranti. Eppure, questo non corrisponde alla storia genetica di oggi perché c’è una forte componente locale, tipica di quella regione e che si collega al periodo Chachapoya antico. Quindi, i membri Chachapoya belligeranti sicuramente furono puniti, qualcuno fu anche spostato. Che lingua parlavano? Forse si parlava già un po’ Quechua e un po’ Chacha. I discendenti dei Chachapoya sono rimasti lì, per altri secoli, fino ad oggi.
Il lavoro dal titolo “The genetic history of the Southern Andes from present-day Mapuche ancestry”, oltre ad avere un alto valore scientifico, ha un grande valore civico. Si parla di genetica, archeologia, dati storici, ma anche di identità, di persone, del loro passato. Il lavoro è stato oggetto anche del documentario Finding First Peoples – The Mapuche. Qual è stato il punto di partenza?
Le narrazioni scientifiche o storiche possono essere intrise di pregiudizi, soprattutto se i soggetti di studio non prendono parte attivamente al processo di conoscenza? Cosa ci riserva il futuro?
I genomi testimoniano e raccontano i nostri pregiudizi sulla narrazione della storia delle Americhe: la storia di un piccolo gruppo fondatore con poca diversità genetica. Questo è un pregiudizio perché si pensava che la ridotta diversità genetica non valga la pena di essere studiata, e questa impressione tuttora permane tra gli scienziati. Tuttavia, vedendo con attenzione alcuni genomi completi, si nota che la diversità è alta: vi sono gruppi che hanno vissuto in comunità più grandi o più piccole, con relazioni tra gruppi anche geograficamente lontani. Dal punto di vista del racconto umano, a mio avviso, ogni tipo di studio antropologico deve partire dal lavoro di campo. Infatti, analizzare kit di laboratorio o un documento al computer non sono la stessa cosa. Però il lavoro di campo lascia il seme della storia che sarà raccontata con uno studio scientifico. In ogni caso, il mio racconto della storia è quello svolto con gli occhi di una persona europea, cioè una persona che ha visto la storia dalla propria prospettiva. Questo può essere interessante, perché c’è voglia di capire, di conoscere, ma bisogna complementare con la prospettiva interna. Quindi, scienziati e genetisti indigeni saranno in grado di raccontare la storia con un’ottica diversa, capace di arricchire anche la nostra conoscenza.
Le Linee Guida per i protocolli clinici di ricerca genetica sottolineano come stigmatizzazione e discriminazione potrebbero avvenire sulla base dell’appartenenza ad un gruppo etnico. La ricerca clinica è uno dei processi più e meglio definiti da specifiche norme armonizzate a livello internazionale. Non vi è invece un consenso internazionale nella pratica di campo dell’antropologia genetica, anche se il dibattito è molto sentito.
I dati che abbiamo ottenuto non sono del tutto aperti. Il compromesso utilizzato è quello di fornire i dati solo a persone che ne facciano richiesta, compilando una documentazione, e si impegnino per usarli per ricostruire storia e demografia, e in rispetto della cultura dei popoli. Ogni volta che ti esponi a raccontare una storia, c’è sempre il pericolo che qualcuno la interpreti erroneamente e la utilizzi a suo piacimento. Ciò che si può fare è proteggere i dati e poi parlare chiaramente ed esplicitamente su cos’è un dato scientifico e cosa significa rispettare la storia.
La vostra riflessione dal titolo “Bridging the gap: returning genetic results to indigenous communities in Latin America” suggerisce la strategia per rendere i lavori accademici sulla storia evolutiva dell’uomo più equi e inclusivi. Gli studi scientifici potrebbero aiutare a garantire i diritti dei popoli indigeni, andando oltre l’Agenda 2030?
Probabilmente, gli studi scientifici possono aiutare un po’ a garantire i diritti dei popoli indigeni, sebbene la missione non sia questa, ovviamente. Però c’è un discorso che faccio sempre a lezione: la scienza ha sempre una valenza politica. Ogni volta che si produce conoscenza bisogna collegarla con le dinamiche sociali e politiche. Quindi, le parole che scelgo per descrivere i risultati dei miei studi sono cariche di quello che è il mio modo di essere e di vedere il mondo. Se parlo, mi confronto, ascolto il punto di vista delle popolazioni Mapuche prima di realizzare uno studio, utilizzerò senz’altro un linguaggio atto a valorizzare la loro storia e, nello stesso tempo, rispettare le loro identità. Questo modo di lavorare è diverso rispetto a quello che vede i Mapuche solo come oggetto di studio, lontano e distante. Quindi, rappresentare la storia e la diversità è un passo che aiuta tutti a conoscere qualcosa in più su una storia poco conosciuta. Le modalità per conoscere e imparare sono diverse: per esempio, qualcuno può aver letto casualmente uno studio scientifico e le riflessioni che ne sono seguite. Raccontare e rappresentare una storia sono aspetti importanti e altrettanto importante è farlo con le giuste parole. Ovviamente, è un processo migliorabile: il gioco non prevede la vittoria di chi è più equo, inclusivo, splendido, ma la partecipazione di tutti per vedere fin dove si può arrivare.
“[…] ogni area del globo ha avuto una storia sia linguistica che genetica a sé stante e quando si lavora e si cerca di fare ipotesi di congruenza geni e lingue, tutti i fattori che possono aver condizionato la storia genetica e linguistica devono essere presi in considerazione” (Giuseppe Nucera – L’evoluzione della lingua: continua la sfida di Darwin, Intervista a Cristina Guardiano, Micron).
Per approfondire:
http://www.chiarabarbieri.com/
Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni
Sillar, B. (2012). Accounting for the Spread of Quechua and Aymara between Cuzco and Lake Titicaca. OUP Academic. doi: 10.5871/bacad/9780197265031.003.0012
Arango-Isaza, E., Capodiferro, M. R., Aninao, M. J., Babiker, H., Aeschbacher, S., Achilli, A., …Barbieri, C. (2023). The genetic history of the Southern Andes from present-day Mapuche ancestry. Curr. Biol., 33(13), 2602–2615.e5. doi: 10.1016/j.cub.2023.05.013
Barbieri, D.E. Blasi, E. Arango-Isaza, A.G. Sotiropoulos, H. Hammarström, S. Wichmann, S.J. Greenhill, R.D. Gray, R. Forkel, B. Bickel, K.K. Shimizu, A global analysis of matches and mismatches between human genetic and linguistic histories, Proc. Natl. Acad. Sci. U.S.A. 119 (47) e2122084119, https://www.pnas.org/doi/10.1073/pnas.2122084119.
Barbieri, Chiara et al. “The Current Genomic Landscape of Western South America: Andes, Amazonia, and Pacific Coast.” Molecular biology and evolution 36,12 (2019): 2698-2713. doi:10.1093/molbev/msz174
Barbieri, C., Sandoval, J.R., Valqui, J. et al. Enclaves of genetic diversity resisted Inca impacts on population history. Sci Rep 7, 17411 (2017). https://doi.org/10.1038/s41598-017-17728-w
Passmore, S., Wood, A. L. C., Barbieri, C., Shilton, D., Daikoku, H., Atkinson, Q. D., & Savage, P. E. (2024). Global musical diversity is largely independent of linguistic and genetic histories. Nat. Commun., 15(3964), 1–12. doi: 10.1038/s41467-024-48113-7

Dopo la laurea magistrale in Neurobiologia presso l’Università La Sapienza di Roma nel 2015, ho conseguito il Dottorato di ricerca in scienze biomediche sperimentali all’Università di Padova nel 2020. Da ottobre 2019 sono un’insegnante di scuola secondaria di primo e secondo grado. Ad ottobre 2022 ho concluso il Master in Comunicazione della Scienza dell’Università di Parma, grazie al quale ho iniziato a collaborare con Pikaia.