Il ruolo della donna nella preistoria: intervista all’archeologa preistorica Enza Spinapolice
Una consolidata tradizione storiografica ha ben evidenziato lo stretto legame fra scienza e società. In maniera meno vistosa, neanche gli studi preistorici si sono sottratti a questo destino: delle pesanti ipoteche ideologiche ne ha condizionato a lungo l’interpretazione e la ricezione. Ne parliamo con l’archeologa Enza Spinapolice
Abbiamo allora deciso di intervistarla per discutere insieme delle nuove prospettive apertesi in archeologia e paleoantropologia, per quanto riguarda il ruolo della donna nelle comunità preistoriche.
Non è molto, infatti, che gli studi sul ruolo sociale della donna hanno fatto il loro ingresso negli studi preistorici. Ci sono stati ostacoli ideologici che hanno impedito, per lungo tempo, un’adeguata comprensione del ruolo della donna nella preistoria. Forse c’entra il retaggio di una scienza rimasta troppo tempo sotto il giogo del Positivismo, un pensiero progressista e a misura d’uomo (di individui di sesso maschile), da cui sovente le donne furono escluse.
Professoressa, esiste un legame verificabile tra la crescente attenzione, soprattutto nel mondo anglosassone, rivolta agli studi di genere nelle società contemporanee e l’applicazione delle loro metodologie e risultati all’interpretazione delle comunità preistoriche?
Chiaramente la sua è una domanda retorica. L’attenzione per il ruolo della donna nella preistoria è strettamente legata alla società contemporanea, dove le questioni intorno al genere sono saldamente incardinate nell’agenda progressista, in tutto il mondo occidentale (e non solo). Non esiste scienza senza il mondo intorno, e purtroppo spesso la scienza è emanazione diretta di ideologie, non sempre positive. La preistoria come disciplina nasce alla fine del XIX secolo, in un mondo dichiaratamente, smaccatamente maschile. E se posso dirlo, anche in un mondo spesso legato a classi sociali elevate, in cui l’idea di questa primitività legata alla “lotta per la sopravvivenza”, risente un po’ dello sguardo dall’alto di chi non lotta certo per sopravvivere. Abbiamo quindi il bruto, il Neandertaliano truce e peloso, quasi sempre solo, oppure accompagnato da una femmina miseranda, e da piccoli emaciati, che patiscono freddo e fame.
Quali aree dell’archeologia e della paleoantropologia hanno sofferto di più il peso dei pregiudizi di genere, e quali sono stati gli studi pionieri che hanno contribuito a invertire la rotta?
Come vede non è solo il ruolo della donna a risentirne, ma si tratta proprio di una mimica della società tutta intera. Che in quel tempo, seppur positivista, era anche classista, e colonialista. Il concetto di maschilismo neppure esisteva e l’idea di includere le donne come parti attive di qualsiasi processo era sostanzialmente impensabile. Bisogna che scorra quasi di un secolo da “L’origine delle specie” (1859) di Charles Darwin, prima che nell’accademia irrompa il pensiero femminile, e io metterei come pietra miliare “Il secondo sesso”, del 1949. Nell’archeologia pian piano ai maschi vestiti di scuro e con le ghette si accompagnano prima pioniere, come Dorothy Garrod (1892-1968), un caso veramente eccezionale per il suo tempo, e poi sempre più archeologhe. Con la comparsa delle archeologhe, ecco che come per magia compare anche la donna nella preistoria.
Cerchiamo noi stessi in tutto ciò che ci circonda, credo sia un processo naturale. Dagli anni ’60 e’70 del secolo scorso, tassello dopo tassello, vengono messe sul tavolo quasi tutte le questioni di genere su cui ancora lavoriamo oggi. Tra le pietre miliari posso citare il lavoro sui modelli etnografici di Janet Spector (1944-2011), e anche il famosissimo libro di Marija Gimbutas (1921-1994) in cui si sovrappone femminilità e divinità. Non tutto ciò che è stato fatto regge il tempo, scientificamente, ma tutto contribuisce ancora a creare uno spazio per le studiose, e per le donne del passato da loro studiate.
Non è un segreto che il mondo accademico sia tuttora una roccaforte maschile: non lo dico io, lo dicono i numeri, è una realtà conclamata. L’elezione di una Rettrice alla Sapienza, per dirne una, non avrebbe suscitato tanto scalpore se non fosse così. Quindi se mi chiede quali settori, le dico tutti. Tutti i settori dell’archeologia e della paleoantropologia hanno sofferto di una sottorappresentanza delle donne, con quello che ne consegue. Oggi stiamo recuperando e recupereremo. Nei modelli sul passato, spero che adesso si vada verso un mondo meno dicotomico: maschile e femminile si completano, sembra una banalità, eppure spesso la narrazione è ancora basata sulla contrapposizione. O sulla competizione.
Professoressa, passano a questioni di metodo, mi vengono in mente alcune considerazioni. La Preistoria è un periodo incomparabilmente più lungo rispetto alla Storia, che facciamo iniziare con lo sviluppo dei sistemi di scrittura. Al contrario, per l’archeologia preistorica si parla di un periodo di oltre 3 milioni di anni, con evidenze archeologiche principalmente provenienti da tre continenti (Africa, Asia e Europa), associate a numerose specie per lo più interne al genere Homo. Una tale diversità di scale spazio-temporali parrebbe indicare che anche il ruolo della donna fosse altrettanto diversificato in queste comunità. Quindi con quanta affidabilità possiamo ricostruire la vita sociale delle donne del passato?
Come è intuitivo, più ci si allontana dal presente e più la ricostruzione del passato diventa difficile, per la natura stessa del dato (archeologico, paleontologico, eccetera) che possediamo. In particolare, la ricostruzione dei sistemi sociali dei rappresentanti del genere Homo che ci hanno preceduto, e ancora di più delle Australopitecine, risente del fatto che non possediamo alcun confronto diretto. Non ci resta che una strada: quella di trovare un bilanciamento, nella interpretazione, tra “usare” noi stessi come modello (Homo sapiens moderni) e/o studiare anche le società, per esempio, dei primati non umani, che possono dare indicazioni per i periodi più antichi.
Non è affatto facile, e la difficoltà contribuisce largamente alla sottovalutazione degli aspetti sociali, familiari e quindi anche di genere, nella preistoria. Quando non si sa cosa dire, spesso si tace. D’altra parte, lo studio della preistoria sta facendo enormi passi avanti, negli ultimi decenni, basti pensare alla rivoluzione portata nel campo dalla paleogenetica (lo studio del DNA antico), culminata, come sappiamo, al premio Nobel a Svante Pääbo. La paleogenetica può sicuramente fornire informazioni preziosissime sugli eventuali legami di parentela, come è successo proprio di recente per i siti dei Neandertaliani siberiani. I gruppi sociali nel Pleistocene erano semplici, molto probabilmente nuclei familiari o nuclei familiari allargati, ma avere un dato su, per esempio, la patrilocalità, o l’esogamia, può farci comprendere molto sulla vita di queste donne.
Nella maggioranza delle società umane conosciute, infatti, le donne hanno lasciato la propria casa/il proprio gruppo sociale, per unirsi a quello dei compagni. Le donne cambiano nucleo familiare, portando con sé un enorme bagaglio di conoscenze da condividere con il nuovo gruppo di cui fanno parte. E così via, in una catena infinita, e in questo essere veicolo di cultura c’è una potenza ancora tutta da investigare. La paleogenetica sembra quasi una magia, ma magia non è, soprattutto perché i siti su cui riusciamo ad avere un dato di tale completezza sono pochissimi. Il lavoro degli archeologi, quindi, è quello di formulare dei modelli teorici, che integrino ciò che sappiamo, e ciò che vorremmo sapere.
Un caso esemplare è la produzione artistica preistorica. Quali strumenti possono impiegarsi per lo studio del ruolo delle donne in tali processi?
Per quanto riguarda l’arte preistorica, nel Paleolitico superiore europeo penso si possa dire che abbiamo una sovrarappresentazione della donna, rispetto ai pochissimi casi di rappresentazione antropomorfa che coinvolgono uomini. La sovrarappresentazione ci grida quasi la centralità della donna in queste società, eppure è molto raro che nell’interpretazione contemporanea questo sia pienamente riconosciuto. Pensi alle statuette (ahimé chiamate “Veneri”): sono fatte dalle donne per le donne? Dagli uomini per le donne? Da tutti per tutti? Raramente ho sentito dire che alle donne del Pleistocene piacesse rappresentare loro stesse, come forma di affermazione. Però mi piace pensarlo. Le immagini di queste donne nude, spesso senza volto, sono una delle testimonianze più vivide di quel tempo remoto, e spero che non sia lontano il momento in cui potremo integrarle in modelli di società che includano tutto il dato archeologico, i siti, le industrie litiche, le prede cacciate, gli ornamenti, le pitture rupestri.In ultimo, una questione di attualità. In analogia ai dibattiti sul rapporto tra natura e cultura, esiste il rischio che anche questo tema diventi oggetto di strumentalizzazione, anche se è difficile prevederne le conseguenze con esattezza.
In quale modo possono questi studi aiutarci nella comprensione delle società contemporanee?
La sua domanda tocca un tasto dolente. Come dicevamo prima, l’archeologia, così come ogni altra disciplina, risente del tempo in cui si è, e di conseguenza il tema del genere è in questo momento centrale. Non è quindi un caso che siano usciti e stiano uscendo, libro sul ruolo della donna nella preistoria e che lei mi stia facendo queste domande. Questo va benissimo, vogliamo legare il presente al passato, scoprire qual è il cammino che ha attraversato la parità di genere, prima di arrivare alle problematiche attuali. Ma lo dicevo anche all’ Archeobook Brunch di Rovereto, questo non vuol dire che le donne, del presente o del passato, possano o debbano essere tutte guerriere, o tutte eccezionali, o forti.
Qualunque categoria ha il diritto di essere vista per quello che è e per quello che è stata. Anche le donne che non vogliono essere amazzoni guerriere hanno il diritto di avere la propria voce. E se dovessimo scoprire delle debolezze, nella femminilità e nel femminile, non vedrei dov’è il problema. Mi piace l’idea che ciascuno trovi diverse soluzioni a diversi problemi. Vede, in Homo sapiens c’è ancora un briciolo di dimorfismo sessuale, che sicuramente è largamente compensato dalla cultura (niente dicotomia!). Penso che ognuno dovrebbe scoprire le proprie specificità, e anche che le battaglie per un mondo più equo debbano essere di tutti
Nella preistoria, basta ricordare che stiamo parlando di MILIONI di anni per comprendere che non ci può essere un singolo modello. Dubito che le nostre antenate australopitecine, di molto più piccole rispetto ai maschi del gruppo, avessero un ruolo sociale dominante, e non è un problema accettarlo. D’altra parte, veniamo da un certo numero di secoli di sottomissione, eppure siamo qui e andiamo nello spazio; quindi, il futuro è tutto da fare.
Su quali concetti bisognerebbe insistere per integrare queste nuove prospettive nell’immaginario collettivo?
Ho quasi timore a tirar fuori la parola complessità, purtroppo ultimamente abusata, ma il passato non è un unico calderone a cui attingere quello che ci piace sul momento. Noi accademici amiamo le sfaccettature e le sfumature, e a volte cancelliamo e riscriviamo un singolo termine dieci volte prima di essere soddisfatti. Perciò il messaggio che mi andrebbe di dare è proprio questo, accettare la complessità e accettare la facoltà di non affermare qualcosa se non abbiamo elementi sufficienti.
E approdiamo al metodo scientifico. Vede, non è un problema solo dell’archeologia, ma di tutto il mondo della scienza. Chissà perché non riusciamo a far passare il messaggio del “come sappiamo ciò che stiamo dicendo”. Temo possa essere un limite del nostro mondo accademico, siamo stati abituati ad affermare cose e vederle accettate per il principio di autorità. Forse però sarebbe il tempo di educare (dai bambini nelle scuole agli adulti nei corsi di formazione) al metodo scientifico, insegnare i processi che ci fanno affermare qualcosa, e anche quelli per cui spesso dismettiamo un modello o un risultato. È tempo.
Immagine: Emmanuel Benner the Younger, Public domain, via Wikimedia Commons
Consegue la laurea triennale in Antropologia evoluzionistica presso l’Università di Liverpool (2020) e magistrale in Filosofia della biologia e delle scienze cognitive presso l’Università di Bristol (2021). Interessato alla storia delle idee, con particolare riferimento a Darwin, si avvicina alla storia della filosofia, su tutte quella medievale e moderna