Siamo nati per innovare? Le differenze cognitive tra Sapiens e Neanderthal

Neanderthal intelligenza

La scoperta di una nuova mutazione suggerisce che sapiens e Neanderthal avessero forme diverse di intelligenza

Negli ultimi vent’anni numerosi gruppi di ricerca hanno studiato, con diversi approcci e tecnologie, le possibili differenze cognitive esistenti tra la nostra specie e l’uomo di Neanderthal. Rigettata l’idea diffusa per molto tempo che il nostro cugino fosse un essere brutale o poco intelligente, si è progressivamente preso atto del fatto che l’uomo di Neanderthal aveva un cervello di grosse dimensioni (anzi in alcuni casi possedeva un cervello più grande del nostro), era dotato di intelligenza simbolica, molto probabilmente parlava (secondo alcuni autori articolando suoni con le nostre stesse parti anatomiche), trasmetteva insegnamenti e apprendeva, come attesta il fatto che sia l’uso del fuoco che la stessa tecnologia litica siano state trasmesse in modo efficace di generazione in generazione per moltissimo tempo. Ma che tipo di intelligenza aveva? La risposta è complessa e dipende anche dalla definizione che diamo di intelligenza, tanto che se la definissimo come la capacità di adattarsi a una situazione scegliendo i mezzi d’azione adeguati (prendendola in prestito dal bellissimo libro Mio caro Neandertal di Silvana Condemi e Francois Savatier), non c’è dubbio che l’uomo di Neanderthal era intelligente. Anzi, considerata la sua lunga permanenza in Europa, a dispetto anche di diverse glaciazioni, non abbiamo neppure indicazioni del fatto che fosse meno intelligente dei primi sapiens arrivati in Europa. Prendendo spunto dallo studio del cervello di altri animali, è però necessario prendere atto del fatto che le sole dimensioni del cervello non sono direttamente correlate alle capacità cognitive, per cui è semplicistico pensare che sapiens e Neanderthal avessero capacità simili o differenti solamente considerando le dimensioni dei loro cervelli. È infatti ormai attestato che il livello di cognizione derivi primariamente dall’organizzazione cerebrale più che da altri parametri. Secondo alcune osservazioni, per esempio, il cervello di sapiens e Neanderthal aveva una diversa vascolarizzazione, che nel nostro caso risulta più elaborata a livello dell’area frontale rispetto a quanto suggerito dalla tomografia ad alta risoluzione eseguita su calchi di crani dei nostri cugini.


Mutazioni e sviluppo del cervello

Una nuova tessera di questo intricato puzzle è stata inserita da un articolo, pubblicato sulla rivista Science (qui il link all’articolo), in cui i ricercatori del Max Planck Institute (tra cui troviamo anche Svante Pääbo, antropologo e Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia 2022) e dell’Università di Dresda hanno focalizzato l’attenzione sul gene TKTL1 che codifica per una proteina coinvolta nello sviluppo del cervello fetale. Siccome il nostro gene TKTL1 differisce da quello dei Neanderthal per un amminoacido (sui 540 che costituiscono la proteina codificata), i ricercatori hanno inserito la versione umana di TKTL1 nel cervello di embrioni di topi e furetti, osservando che gli embrioni modificati possedevano più progenitori neurali di quanti non ne avessero gli animali normali impiegati come controllo dell’esperimento. Per confermare i risultati ottenuti e passare dal modello animale all’uomo, i ricercatori hanno realizzato organoidi con cellule della neocorteccia cerebrale umana, in cui hanno inserito, tramite ingegneria genetica, la versione mutata del gene TKTL1 e quella non mutata (presente nei Neanderthal per intenderci) osservando differenze importanti nel numero di neuroni che si generavano. In particolare, la variante sapiens induce un aumento del numero di neuroni suggerendo quindi che, sebbene sapiens e Neanderthal avessero un volume del cervello comparabile, una importante differenza poteva essere presente, a favore dei nostri antenati sapiens, nel numero di neuroni neocorticali e nell’organizzazione interna del cervello. Ovviamente è molto probabile che anche altri geni siano intervenuti per definire e differenziare le capacità cognitive della nostra specie rispetto ai Neanderthal. È pero interessante osservare che la mutazione descritta nel gene TKTL1 più che rendere il sapiens più intelligente del Neanderthal potrebbe aver favorito una forma diversa di intelligenza, che rendeva i nostri antenati molto propensi a innovare. Si pensi, ad esempio, alle numerose tecniche litiche adottate dai sapiens già nei primi millenni vissuti in Europa rispetto a quanto fatto dai Neanderthal.
Colpisce che dopo una fase di stabilità lunga 250.000 anni, il Musteriano si evolve in Europa e si diversifica alla fine della storia neandertaliana in varie tecniche litiche in un lasso di tempo relativamente breve, di appena 10.000 anni circa. In ogni caso, se anche i neandertaliani cambiarono bruscamente stile di taglio per via dell’influenza indiretta dei sapiens, non avrebbero mai potuto farlo se non avessero posseduto una facoltà cognitiva e una capacità di comunicazione e simbolizzazione all’altezza del loro concorrente. Fino ad allora avevano tenuto un comportamento piuttosto abitudinario, che denotava una mentalità di questo tipo: tecnica che funziona, non si cambia. All’improvviso dovettero innovare per imitare abili concorrenti”. Silvana Condemi e Francois Savatier, Mio caro Neandertal.


Innovare o restare fedeli alla tradizione?

Se l’uomo di Neanderthal, dopo aver mantenuto sostanzialmente lo stesso stile di vita per 200mila anni, ha saputo celermente apprendere e adottare nuove tecnologie, doveva essere sicuramente intelligente. Forse era più carente di quella forma di intelligenza che serve per generare le innovazioni? Come in una sorta di dialogo tra libri, questa idea mi ha fatto ricordare lo scontro tra il conservatore zio Vania e l’innovatore Edward, protagonisti de Il più grande uomo scimmia del Pleistocene (Adelphi, 1992): “Perché quello che hai fatto ti ha spinto fuori dalla natura, Edward. Si tratta di colpevole superbia, come fai a non capirlo? Ed è il minimo che si possa dire. Eri un figlio della natura, semplice e pieno di grazia, facevi parte dell’ordine della natura, di cui accettavi i doni e i castighi, le gioie e i dolori: così vivace, così autosufficiente, così innocente. Partecipavi al grande e mirabile disegno della flora e della fauna, che vivono in perfetta simbiosi, e però progrediscono con infinita lentezza nella maestosa carovana del mutamento naturale. E adesso dove ti ritrovi?“. Grazie alla diversa intelligenza, la nostra specie ha ben presto iniziato a modificare la propria nicchia ecologica anziché restare, come suggeriva zio Vania, “figlia della natura!”. Per i Neanderthal, pur con qualche innovazione (vedi il fuoco e alcuni rimedi naturali usati per curarsi), la storia è sempre stata una storia naturale, fatta di adattamento e resilienza. I sapiens invece sono da sempre innovatori, dalle tecniche litiche all’agricoltura, dalla scoperta del ferro alle società moderne. Insomma, come direbbe zio Vania, la nostra è una lunga, lunghissima, storia contro natura.   Riferimenti: Pinson A et al. (2022) Human TKTL1 implies greater neurogenesis in frontal neocortex of modern humans than Neanderthals. Science 377: eabl6422.

Immagine: Neanderthal-Museum, Mettmann [CC-BY-SA-4.0] via Wikimedia Commons.