Nuove scoperte nella Gola di Olduvai

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L’antropologo Alessandro Riga del progetto THOR racconta come il suo gruppo ha trovato e analizzato due molari di ominini, attribuendoli al genere Paranthropus

La Gola di Olduvai, nel nord della Tanzania, è uno dei siti più iconici per lo studio dell’evoluzione umana. Il suo nome deriva da una storpiatura della parola Oldupai, che nella lingua dei Masai indica una delle piante più comuni nei dintorni della gola, Sansevieria ehrenbergii, che ultimamente è molto comune anche in Italia come pianta ornamentale. La Gola di Olduvai corre ai margini sudorientali delle grandi Piane del Serengeti per circa 40 chilometri in direzione ovest-est, tagliando sedimenti che si sono depositati nel corso degli ultimi due milioni di anni (Ma). Sulla destra idrografica della gola principale scorre una gola laterale; i due rami convergono a circa 3/4 del percorso del fiume principale. Non lontano da questo punto, si trova il Leakey Camp, che tra gli anni ’30 e ’70 del secolo scorso è stato la base per le ricerche sul campo condotte da Mary Leakey e, in misura minore, da suo marito Louis Leakey.

Nel corso degli anni, a Olduvai sono stati ritrovati numerosi resti di ominini che hanno permesso di descrivere specie come Zinjanthropus (ora Paranthropus) boisei e Homo habilis, nonché quella che per lungo tempo è stata considerata l’industria litica più antica mai prodotta e che, proprio da questo sito, prende il nome di Olduvaiano. Questi ritrovamenti hanno colpito l’immaginario collettivo così tanto che Olduvai è diventato un luogo iconico che compare in libri e film. Ad esempio, le vicende iniziali raccontate in “2001 Odissea nello spazio”, sia nel libro di Arthur C. Clarke che nell’adattamento cinematografico di Stanley Kubrick, sono ambientate a Olduvai. In un altro racconto di fantascienza meno conosciuto, “Nell’Abisso di Olduvai” di Mike Resnik, alcuni alieni, tra cui un archeologo, atterrano ad Olduvai per indagare la storia dell’umanità, dall’origine all’estinzione. Anche in una puntata di Futurama (“Origine meccanica”), i protagonisti della serie, guidati dal prof. Farnsworth, si dirigono verso Olduvai alla ricerca di un “anello mancante mancante” [sic!].

Gli studi nella Gola di Olduvai sono proseguiti negli anni ad opera di ricercatori interessati ad approfondire vari aspetti della geologia, paleontologia, paleoantropologia ed archeologia di questa area. Ancora oggi, numerosi gruppi da tutto il mondo portano avanti le proprie ricerche a Olduvai e alcuni di questi fanno ancora base nel Leakey Camp, alla confluenza delle due gole, appoggiandosi metaforicamente e letteralmente sul lavoro impostato dai Leakey nel secolo scorso. Tra questi gruppi ce n’è anche uno italiano (di cui fa parte chi scrive), composto da ricercatori delle Università di Perugia, Firenze, Sapienza di Roma e Pisa. Il progetto, che ormai va avanti dal 2011 con diverse denominazioni, si chiama Tanzania Human Origins Research (THOR) e ha avuto modo di lavorare su alcuni ritrovamenti importantissimi, tra cui le nuove piste di impronte rinvenute a Laetoli (non lontano da Olduvai) nel 2015 e pubblicate l’anno successivo.

A caccia di fossili

Parte dell’attività di ricerca consiste nel camminare nella gola alla ricerca di fossili sulla superficie. I sedimenti affioranti sono ricchissimi di industria litica e ossa di animali che sono morti nei dintorni dei laghi che costellavano la zona tra 2 milioni e 400 mila anni fa circa. Anche il regime di precipitazioni dell’area contribuisce alla quantità di reperti che si trovano sulla superficie. Infatti, le piogge torrenziali della stagione umida provocano una forte erosione del suolo e i reperti contenuti nei sedimenti vengono in luce e rimangono in superficie, esposti all’azione degli elementi e in una situazione di forte rischio per la loro preservazione. Per questo motivo è facile trovarsi in zone in cui bisogna fare attenzione a come ci si muove per non calpestare qualche fossile.

In alcune di queste ricognizioni i collaboratori del nostro gruppo di ricerca hanno ritrovato, in tempi e luoghi diversi, due denti di ominini, adesso catalogati al Museo Nazionale di Dar es Salaam come OH 92 e OH 30B; la sigla OH sta ad indicare “Olduvai Hominid”, quindi un resto di ominide, seguendo la denominazione iniziata dai Leakey.

Si tratta di due molari inferiori, di dimensioni ben maggiori (il diametro maggiore è di circa 1,7 cm) di quelle degli esseri umani attuali. Entrambi i denti sono conservati perfettamente e appartengono ad individui non ancora adulti, come dimostrato dalla radice ancora in formazione. Nonostante le dimensioni simili, la loro morfologia è molto diversa: tra i caratteri più facilmente riconoscibili, OH 92 ha cuspidi basse e una morfologia occlusale complessa e ricca di crenulazioni, mentre OH 30B ha cuspidi alte e una superficie occlusale più semplice. In base alla loro posizione stratigrafica, possiamo suggerire un’età di circa 1,5 Ma per OH 92 e 1,8 Ma per OH 30B.

Come si studiano i denti di antichi ominini

Grazie alla collaborazione con le istituzioni tanzaniane, siamo riusciti ad esportare temporaneamente i due denti per sottoporli ad analisi avanzate. Abbiamo trasportato i due denti a Grenoble (Francia), dove ha sede la European Synchrotron Radiation Facility (ESFR), un centro di ricerca costruito attorno a un sincrotrone (un particolare tipo di acceleratore di particelle). Scienziati di tutto il mondo possono appoggiarsi a questo centro per svolgere ricerche di vario tipo, dalla fisica subatomica allo studio delle opere d’arte. Durante l’accelerazione e la decelerazione sul percorso circolare del sincrotrone, le particelle subatomiche emettono energia sottoforma di fasci di luce. I fasci di luce elettronica sono convogliati su specifiche linee (beamline) e vengono utilizzati per ottenere immagini microtomografiche a risoluzioni altissime, nell’ordine del micron.

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Il dente OH 30B è pronto per essere analizzato con luce di sincrotrone nella beamline BM-18 dell’European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble.

In questo modo è stato possibile ricostruire virtualmente le porzioni interne dei denti e ricavare la superficie di giunzione smalto-dentina (GSD). Questa superficie è la zona dove i due tessuti del dente si incontrano e ha un ruolo essenziale nella sua morfogenesi. La morfologia della GSD determina la morfologia del dente alla fine dello sviluppo. I vantaggi di studiare la GSD invece delle porzioni esterne del dente sono molteplici. Prima di tutto, la GSD si mantiene intatta più facilmente perché posta all’interno del dente, mentre la superficie dello smalto va incontro a usura con la masticazione, rendendo più difficile osservare i caratteri diagnostici. Inoltre, la GSD si forma molto presto nello sviluppo del dente; per questo è meno soggetta a variazioni indotte dall’ambiente ed è più correlata alla variabilità genetica. Il potere diagnostico della GSD è così forte che analizzandola è possibile distinguere le diverse sottospecie di scimpanzé attuali.

Tornando ai nostri ritrovamenti, abbiamo analizzato la GSD dei due denti utilizzando la morfometria geometrica, una tecnica statistica che permette di quantificare la variazione di forma di un oggetto utilizzando le coordinate spaziali di punti specifici (detti landmarks e semilandmarks) presi sull’oggetto stesso. Comparando OH 92 e OH 30B con un campione di fossili appartenenti a diverse specie, entrambi i denti rientrano chiaramente nella variabilità del genere Paranthropus, discostandosi dai generi Australopithecus e Homo. Anche altre analisi sullo spessore dello smalto e sulla morfometria delle porzioni esterne dei denti confermano questi risultati. Le forti differenze nella morfologia dei due denti possono essere in parte spiegate con una variazione metamerica (i metameri sono elementi che si ripetono in fila, come i segmenti di un lombrico o, appunto, i denti di un mammifero), poiché OH 30B è un primo molare, mentre OH 92 è un secondo (o terzo) molare.

Questo ritrovamento assume un’importanza inaspettata per lo studio della variabilità del genere Paranthropus in Africa orientale. Infatti, nonostante le ricerche ad Olduvai vadano avanti ormai da oltre un secolo, il record fossile aveva restituito soltanto altri tre molari inferiori di Paranthropus. Il nostro ritrovamento quasi raddoppia il campione.

Una sorpresa inaspettata

OH 30B è stato ritrovato in un sito chiamato FLK (Frida Leakey Korongo), un canale erosivo che prende il nome dalla prima moglie di Louis Leakey. FLK non è lontano dal Leakey Camp e può essere raggiunto facilmente in 20 minuti di cammino. Non lontano da dove abbiamo rinvenuto OH 30B, nel 1969 Mary Leakey rinvenne alcuni denti e frammenti di ossa attribuiti a un individuo di Paranthropus boisei. Il luogo del ritrovamento è segnato da un cippo di cemento con inciso il numero di catalogo dell’individuo: OH 30. Mentre portavamo avanti lo studio dei denti, senza troppe aspettative, abbiamo deciso di studiare al Museo Nazionale di Dar es Salaam i reperti originali attribuiti a OH 30. Non potete immaginare la sorpresa, quando ci siamo trovati davanti una serie di denti tra cui spiccava un molare praticamente identico al nostro, se non per il fatto che il molare ritrovato da Mary Leakey era sinistro, mentre quello trovato da noi era destroAvevamo trovato il dente mancante di un individuo scoperto da Mary Leakey più di 50 anni prima!

Riferimenti:

Riga, A., Davies, T. W., Azzarà, B., Boschian, G., Buzi, C., Kimambo, J. S., …Cherin, M. (2024). New hominin dental remains from Olduvai Gorge (Tanzania). Journal of Human Evolution, 193, 103556. doi: 10.1016/j.jhevol.2024.103556

Immagine in apertura: Modelli 3D dei denti OH 30B (sinistra) e OH 92 (destra) ottenuti a partire da TAC ad altissima risoluzione realizzate presso l’ESRF di Grenoble. A destra, ricostruzione digitale di Paranthropus boisei (www.arc-team.com).

Articolo in collaborazione con la Scuola di Paleoantropologia dell’Università di Perugia, finanziatrice del progetto THOR assieme al Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale (Missioni archeologiche, antropologiche ed etnologiche italiane all’estero; direttore della missione: Prof. Giorgio Manzi) e dal Ministero dell’Università e della Ricerca (progetto PRIN 2022 n. 2022KJB743 finanziato con fondi Next Generation EU – PNRR; coordinatore: Prof. Marco Cherin)