Il Vesuvio, i sardi e la tubercolosi: il primo sequenziamento del DNA di un antico abitante di Pompei
Sequenziato con successo il DNA di alcuni resti umani rinvenuti nella Casa del Fabbro, a Pompei; un individuo ha rivelato una lontana parentela con la popolazione sarda e dell’Italia centrale, e un’antica infezione da tubercolosi.
Auspicabilmente, il nome di Pompei non vi sarà nuovo: un antico insediamento sulla costa campana, con una lunga storia di cui ricordiamo soprattutto gli istanti finali. Nell’ultimo periodo prima del 79 d. C., Pompei era una florida città portuale, probabilmente una meta turistica per ricchi patrizi romani; in quell’anno il Vesuvio eruttò, e Pompei venne congelata nel tempo sotto una coltre di materiale piroclastico. Le ceneri hanno conservato molte cose, non tutte immediatamente visibili.
La rivista Scientific Reports ha diffuso i risultati di un’analisi bioarcheologica e paleogenomica compiuta di recente su due antichi Pompeiani, rinvenuti nel 1933 nella Casa del Fabbro. I ricercatori sono riusciti a caratterizzare il profilo genetico di uno di questi; a oggi, si tratta del primo sequenziamento mai riuscito su un abitante di Pompei (di età romana, s’intende).
L’individuo ha dimostrato una parentela con gli attuali sardi, e i segni di un’infezione vertebrale da tubercolosi. Lo studio ha visto la collaborazione di Università ai due capi dell’Atlantico, tra cui quelle italiane di Roma Tor Vergata e del Salento; è firmato dall’antropologo molecolare Gabriele Scorrano e colleghi, tra cui Olga Rickards, professoressa di antropologia molecolare a Tor Vergata, e Fabio Macciardi, professore di psichiatria molecolare all’Università della California.
Gli abitanti della Casa del Fabbro
I due individui studiati (denominati dai ricercatori A e B) furono trovati quasi cento anni fa nella Casa del Fabbro. Si tratta di una domus situata al regio I, insula 10, civico 7 secondo la divisione dello scavo ideata nel 1858 da Giuseppe Fiorelli (archeologo e numismatico, non attore), nella stessa insula quindi dalla più famosa Casa del Menandro. Uno degli aspetti più caratteristici della Casa del Fabbro era il graffito CIL IV 8364, un tempo visibile sul suo muro esterno e oggi perduto alle intemperie; Antonio Varone, nel suo Erotica Pompeiana, lo traduce così: “Secundus saluta la sua Prima ovunque essa sia: ti prego, signora, amami”. Gli individui A e B furono trovati in quella che probabilmente era un triclinio (il tipico ambiente romano per i pasti), appunto sui resti di un letto tricliniare. Le loro posizioni originarie suggeriscono che siano morti istantaneamente, travolti da una nube piroclastica. Dalle analisi sulle ossa, A era un uomo tra i 35 e i 40 anni alto 1,64 m, mentre B era una donna sopra i 50 e alta 1,53 m. È soltanto di A che gli scienziati sono riusciti a sequenziare il DNA, quindi è di lui che parleremo. Eredità romana
Il DNA è stato estratto dalla parte petrosa dell’osso temporale degli scheletri, che tende a preservare bene il DNA antico. Il sequenziamento di A ha rivelato una vicinanza con i genomi delle popolazioni attuali di Italia Centrale e Sardegna; in particolare l’aplogruppo (in poche parole, la famiglia di una regione del genoma, con mutazioni condivise che rivelano un antenato comune) del suo cromosoma Y sopravvive oggi soltanto tra i sardi. Non si è potuto stabilire se A fosse effettivamente di Pompei, ma è altamente probabile che fosse di origini italiane. Tale provenienza non era affatto un assunto: il suo genoma, confrontato ad altri di età romana noti, ha confermato ancora una volta la ricca variabilità genetica che si poteva trovare in Italia a quei tempi, frutto di migrazioni e contatti tra i popoli del Mediterraneo. Vecchie ossa malate
Le vertebre di A portavano i segni di un’antica malattia: dopo aver considerato quale, tra diverse patologie vertebrali, fosse la più probabile colpevole (e aver fatto quindi una diagnosi differenziale, pratica comune tra i medici anche su pazienti più in forma di questo) i ricercatori hanno stabilito che si sia trattato probabilmente di una tubercolosi vertebrale. Questo tipo di lesione, detta anche morbo di Potts, avviene di solito quando il bacillo responsabile, dai polmoni, si diffonde attraverso il sangue fino alle vertebre; alla lunga, può anche causarne il crollo. Vista la scoperta, Scorrano e colleghi hanno tentato di recuperare DNA batterico da quello sequenziato di A: i risultati sono stati compatibili con la presenza di batteri del genere Mycobacterium, ma non hanno consentito di identificare con sicurezza la specie tuberculosis, quella più comunemente responsabile. Anche se il DNA non ha confermato la diagnosi di tubercolosi, questa rimane la più probabile: sono tante, infatti, le testimonianze dell’epoca che ci dicono quanto fosse diffusa a quei tempi la malattia. Secondo i ricercatori, questo studio dimostra l’efficacia di un approccio combinato per lo studio di resti umani trovati a Pompei, la sua potenzialità di gettare nuova luce sulla vita di queste persone anche prima di quell’ultimo giorno. Riferimenti:
Scorrano, G., Viva, S., Pinotti, T. et al. Bioarchaeological and palaeogenomic portrait of two Pompeians that died during the eruption of Vesuvius in 79 AD. Sci Rep 12, 6468 (2022). https://doi.org/10.1038/s41598-022-10899-1
Immagine in apertura: gregwill22 via Pixabay
I due individui studiati (denominati dai ricercatori A e B) furono trovati quasi cento anni fa nella Casa del Fabbro. Si tratta di una domus situata al regio I, insula 10, civico 7 secondo la divisione dello scavo ideata nel 1858 da Giuseppe Fiorelli (archeologo e numismatico, non attore), nella stessa insula quindi dalla più famosa Casa del Menandro. Uno degli aspetti più caratteristici della Casa del Fabbro era il graffito CIL IV 8364, un tempo visibile sul suo muro esterno e oggi perduto alle intemperie; Antonio Varone, nel suo Erotica Pompeiana, lo traduce così: “Secundus saluta la sua Prima ovunque essa sia: ti prego, signora, amami”. Gli individui A e B furono trovati in quella che probabilmente era un triclinio (il tipico ambiente romano per i pasti), appunto sui resti di un letto tricliniare. Le loro posizioni originarie suggeriscono che siano morti istantaneamente, travolti da una nube piroclastica. Dalle analisi sulle ossa, A era un uomo tra i 35 e i 40 anni alto 1,64 m, mentre B era una donna sopra i 50 e alta 1,53 m. È soltanto di A che gli scienziati sono riusciti a sequenziare il DNA, quindi è di lui che parleremo. Eredità romana
Il DNA è stato estratto dalla parte petrosa dell’osso temporale degli scheletri, che tende a preservare bene il DNA antico. Il sequenziamento di A ha rivelato una vicinanza con i genomi delle popolazioni attuali di Italia Centrale e Sardegna; in particolare l’aplogruppo (in poche parole, la famiglia di una regione del genoma, con mutazioni condivise che rivelano un antenato comune) del suo cromosoma Y sopravvive oggi soltanto tra i sardi. Non si è potuto stabilire se A fosse effettivamente di Pompei, ma è altamente probabile che fosse di origini italiane. Tale provenienza non era affatto un assunto: il suo genoma, confrontato ad altri di età romana noti, ha confermato ancora una volta la ricca variabilità genetica che si poteva trovare in Italia a quei tempi, frutto di migrazioni e contatti tra i popoli del Mediterraneo. Vecchie ossa malate
Le vertebre di A portavano i segni di un’antica malattia: dopo aver considerato quale, tra diverse patologie vertebrali, fosse la più probabile colpevole (e aver fatto quindi una diagnosi differenziale, pratica comune tra i medici anche su pazienti più in forma di questo) i ricercatori hanno stabilito che si sia trattato probabilmente di una tubercolosi vertebrale. Questo tipo di lesione, detta anche morbo di Potts, avviene di solito quando il bacillo responsabile, dai polmoni, si diffonde attraverso il sangue fino alle vertebre; alla lunga, può anche causarne il crollo. Vista la scoperta, Scorrano e colleghi hanno tentato di recuperare DNA batterico da quello sequenziato di A: i risultati sono stati compatibili con la presenza di batteri del genere Mycobacterium, ma non hanno consentito di identificare con sicurezza la specie tuberculosis, quella più comunemente responsabile. Anche se il DNA non ha confermato la diagnosi di tubercolosi, questa rimane la più probabile: sono tante, infatti, le testimonianze dell’epoca che ci dicono quanto fosse diffusa a quei tempi la malattia. Secondo i ricercatori, questo studio dimostra l’efficacia di un approccio combinato per lo studio di resti umani trovati a Pompei, la sua potenzialità di gettare nuova luce sulla vita di queste persone anche prima di quell’ultimo giorno. Riferimenti:
Scorrano, G., Viva, S., Pinotti, T. et al. Bioarchaeological and palaeogenomic portrait of two Pompeians that died during the eruption of Vesuvius in 79 AD. Sci Rep 12, 6468 (2022). https://doi.org/10.1038/s41598-022-10899-1
Immagine in apertura: gregwill22 via Pixabay
Ho un master in Giornalismo e comunicazione istituzionale della scienza dell’Università di Ferrara, e ho scritto per le riviste online Il Tascabile e Agenda17, oltre che per Pikaia. Sono medico e lavoro come specializzando in Genetica medica con l’Università di Pavia. Scrivo anche narrativa, e ho pubblicato due racconti nelle raccolte dei concorsi Caratteri di uomo e di donna del 2018 e Oltre il velo del reale del 2022.