La biodiversità al centro | ep. 10 | L’innovazione nelle aree protette italiane

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Dalla tecnologia alla citizen science, passando per la valorizzazione dei servizi ecosistemici: con il contributo del National Biodiversity Future Center, le aree protette italiane diventano laboratori di innovazione per la tutela della biodiversità

Grazie al National Biodiversity Future Center le aree protette italiane diventano un laboratorio dove innovazione, ricerca scientifica e conoscenza del territorio si incontrano. Ce lo racconta Giorgio Scarnecchia, biologo e membro della segreteria tecnica dell’HUB di NBFC.

In questa ultima puntata della serie “La biodiversità al centro“, Giorgio ripercorre il lavoro fatto con i bandi gestiti dallo spoke 8 e rivolti agli enti gestori di aree protette, visitando i luoghi dove si sperimentano nuove strategie per conservare e valorizzare la biodiversità.

Oltre il laboratorio: le competenze che fanno avanzare ricerca e conservazione

 Biologo di formazione, Giorgio ci racconta che la sua passione per la natura è nata in Honduras, durante un anno all’estero alla fine delle scuole superiori. Ha visitato l’Iguana Station di Utila, un centro di ricerca e conservazione dedicato alla protezione dell’iguana endemica dell’isola caraibica (Ctenosaura bakeri), una specie a rischio di estinzione. Il lavoro della stazione include la ricerca scientifica, programmi di allevamento e educazione ambientale per la comunità locale. 

“Lì ho capito che quello sarebbe stato il mio mondo.”, spiega Giorgio.

Così, si è laureato in Scienze Biologiche presso Roma Tre, e ha poi conseguito la magistrale in Biodiversità e gestione degli ecosistemi. Ma lungo il percorso ha scelto di non seguire la tradizionale carriera accademica. Si è quindi specializzato in europrogettazione, cioè la progettazione e gestione di progetti europei, in particolare di quelli dedicati alla conservazione ambientale e all’innovazione nella ricerca.

“In questo modo pensavo che sarei potuto rimanere in contatto con il mondo della ricerca, dell’innovazione e della conservazione naturale

Nell’estate del 2024 è entrato nella segreteria tecnica dell’HUB di NBFC, la struttura organizzativa che coordina gli spoke.

Nuovi strumenti per vecchie sfide

Con uno stanziamento complessivo di oltre 13 milioni di euro, lo spoke 8 del NBFC ha finanziato attraverso 2 bandi circa 80 progetti in tutta Italia. I destinatari sono gli enti che si occupano della gestione delle aree protette, in particolare quelle appartenenti alla rete Natura 2000, una rete ecologica europea che comprende aree designate per la conservazione della biodiversità, e che in Italia conta oltre 1600 siti. Si va dai parchi nazionali agli enti regionali, fino alle oasi gestite da soggetti privati come WWF.

L’obiettivo dei bandi era introdurre una discontinuità con le pratiche tradizionali di gestione, monitoraggio e ripristino ambientale. Come spiega Giorgio, si punta a “rompere con il passato” per sperimentare nuove tecnologie, nuovi metodi di raccolta dati e nuove modalità di interazione con il territorio. Altrettanto importante è la valorizzazione di queste aree, per esempio attraverso il riconoscimento e la protezione e remunerazione dei servizi ecosistemici che forniscono e l’adozione di modelli economici circolari.

Un viaggio nelle aree protette

Giorgio Scarnecchia ha visitato di persona molti dei luoghi coinvolti dai progetti, insieme alla collega di NBFC Norma Rosso. I sopralluoghi si articolano in due momenti: un primo scambio tecnico, con la raccolta di dati attraverso questionari, e poi la visita vera e propria nei territori. Il racconto del suo viaggio è anche un mosaico di esperienze, habitat e pratiche.

Tra i progetti visitati, Giorgio cita MEIOGYPSOS – Meiofauna delle acque carsiche della Vena del Gesso Romagnola. È dedicato allo studio della meiofauna, minuscoli organismi che vivono nei sedimenti, tra cui i rotiferi di cui abbiamo parlato in questa serie. Il progetto, che ha terminato a luglio i campionamenti, si svolge nelle grotte della Vena del Gesso Romagnola, un ambiente fragile e spettacolare. Utilizzando tecniche di metabarcoding mai impiegate prima in quest’area protetta, i ricercatori vogliono raccogliere dati preziosi per approfondire la conoscenza delle specie presenti e valutare il grado di connettività tra le grotte e l’ambiente esterno, un aspetto cruciale per comprendere la vulnerabilità degli acquiferi carsici. La meiofauna viene così impiegata come indicatore ecologico per mappare le dinamiche sotterranee e gli scambi tra sistemi chiusi e spazi esterni.

C’è poi il progetto MOM-PG: monitoraggio ottimale dei mammiferi nelle Prealpi Giulie. Attivo nel Parco Naturale delle Prealpi Giulie, utilizza protocolli di monitoraggio dei mammiferi basati su tecniche statistiche avanzate e adattabili a diversi budget. L’obiettivo è ottenere dati affidabili con il miglior rapporto costi-benefici, grazie all’identificazione di specie ombrello che permettono di proteggere più specie contemporaneamente.

Sulle sponde del lago d’Iseo, all’interno della Riserva Naturale Torbiere del Sebino, si svolge invece il progetto Biohub Torbiere. Questo punta a rafforzare le conoscenze scientifiche su una zona umida di grande importanza, promuovendo al tempo stesso il coinvolgimento diretto della comunità locale. Il progetto prevede il monitoraggio di diversi gruppi faunistici e floristici – tra cui avifauna, chirotteri, coleotteri idroadefagi, rettili, libellule – ma anche l’uso di soluzioni basate sulla natura per il ripristino ambientale, come la realizzazione di isole galleggianti per ospitare la vegetazione nativa.

Durante la loro missione Giorgio e Norma hanno potuto addentrarsi anche in alcune aree normalmente non aperte al pubblico, ma il biologo ci sottolinea che le aree protette non sono solo luoghi di ricerca e conservazione: sono anche spazi da vivere. L’accesso ai cittadini, quindi, è in genere libero e sono escluse solo particolari zone dove l’ingresso è consentito solo su autorizzazione, per esempio per scopi di ricerca.

Ma in alcuni casi per accedere alle aree protette può essere richiesto un pagamento, con l’obiettivo di sostenere le attività di gestione e tutela. Giorgio ci spiega che c’è un certo dibattito sull’uso di questi pagamenti, poiché potrebbero apparire come una limitazione all’uso del territorio. Tuttavia, precisa, nella maggior parte dei casi il pagamento è richiesto solo ai visitatori non residenti.

“Un piccolo pagamento può aiutarci a capire il valore della biodiversità e a garantire che quei luoghi restino fruibili anche in futuro”.

La tecnologia al servizio della biodiversità

Innovare nella gestione delle aree protette significa anche introdurre l’uso di strumenti tecnologici avanzati. Alcuni dei progetti finanziati, per esempio, utilizzano il DNA ambientale, che permette di rilevare la presenza di specie animali o vegetali analizzando campioni d’acqua o di suolo. Il metabarcoding, che abbiamo citato prima a proposito del progetto MEIOGYPSOS, non è altro che una tecnica che, a partire dal DNA ambientale, può identifcare rapidamente più specie a partire da brevi sequenze conservate, che funzionano appunto come un “codice a barre”.

Giorgio ci spiega che la tecnica ha dei limiti, per esempio perché non possiamo sapere con precisione quanti esemplari ci sono, ma può offrire indicazioni preziose sulla presenza o meno di una specie in un’area a un costo contenuto.

In altri casi vengono utilizzati rilevatori a ultrasuoni per identificare le diverse specie di pipistrelli, o fototrappole che registrano solo in presenza di movimento. C’è un problema però: tutti questi sensori, anche se si attivano solo in determinate circostanze, come un rumore o un movimento, registrano molto “rumore di fondo”, cioè audio, foto e video prive di interesse ai fini del monitoraggio. Questo può accadere per tanti motivi: la specie che passa davanti alla fotocellula non è quella giusta, il movimento è quello di una semplice foglia che cade, oppure perché in alcuni progetti serve una registrazione ininterrotta.

È quindi necessario scremare questi dati e togliere le informazioni superflue, un compito molto laborioso. Ma c’è una soluzione:

Entra in gioco l’intelligenza artificiale, che ci permette di togliere tutti quei rumori di fondo, così che l’operatore si può concentrare nell’osservazione soltanto di quei video con dati effettivamente utili.

Anche la Citizen Science è innovazione

In alcune delle attività finanziate nelle aree protette, un ruolo centrale è svolto dalla citizen science, ovvero il coinvolgimento attivo dei cittadini nella raccolta dei dati scientifici. La citizen science infatti, o “scienza partecipata”, è una delle strategie che il National Biodiversity Future Center sta supportando nelle sue attività: ne avevamo parlato nella quarta puntata di questa serie.

Giorgio ci conferma le sue potenzialità: con la guida degli esperti, la citizen science permette infatti di moltiplicare lo sforzo di monitoraggio.

Dobbiamo dire che la citizen science è uno strumento potentissimo nelle mani di ricercatori. Non serve solo a coinvolgere il pubblico, ma ci permette di ottenere dei dati che sono utilizzabili per l’analisi e poi per le pubblicazioni scientifiche.

Tra i progetti che abbiamo già citato, sia Biohub Torbiere che MOM-PG includono esperimenti di citizen science. Giorgio ci parla anche di CS4BIO – Citizen Science per la Conservazione degli agroecosistemi, dell’Ente di Gestione per i Parchi e la Biodiversità dell’Emilia Occidentale:

CS4BIO sta sviluppando un protocollo di monitoraggio che coinvolga anche i cittadini, cosa che sarà fondamentale per fornire dei dati alle Regioni e poi successivamente anche all’Unione europea, che ci chiede periodicamente dei report sullo stato di conservazione delle aree della rete Natura 2000

Dalla conoscenza alla cura

Visitare le aree protette significa anche incontrare chi ci lavora ogni giorno. Il legame tra persone e territori è spesso il motore più potente per il cambiamento. Durante la sua visita al progetto H.A.R.G.I.N. – Habitat Acquatici di Rilevanza strategica per la Gestione Integrata del sito Natura2000, nella Riserva Naturale Pian di Spagna e Lago di Mezzola, Giorgio è rimasto colpito dall’incontro con un agricoltore che ha promosso il progetto. L’agricoltore ha messo a disposizione le sue conoscenze tradizionali per ripristinare un sistema di canali e chiuse, che un tempo regolavano l’acqua e, oltre a favorire pesca e agricoltura, aveva creato un’area umida utilizzata dagli uccelli migratori.

Negli ultimi decenni questo sistema era stato abbandonato, e si stava perdendo l’area umida. Basandosi anche sulle conoscenze di chi, come l’agricoltore, aveva vissuto il territorio prima dell’abbandono, il progetto H.A.R.G.I.N ha realizzato nuove chiuse a basso impatto, permettendo all’area umida di rinascere.

Ci sono delle storie in cui il sapere popolare, mischiato con la ricerca e l’innovazione, riesce a produrre risultati incredibili”, commenta Giorgio. È anche da qui che passa il futuro delle aree protette.

Per approfondire l’innovazione in corso nelle nostre aree protette, ad ottobre NBFC pubblicherà il libro su questi progetti, scritto da Giorgio assieme alle colleghe dell’HUB NBFC Norma Rosso, Claudia Gorga e Costanza Majone.

La biodiversità al centro

Con l’intervista a Giorgio Scarnecchia si chiude la serie “La biodiversità al centro”, un viaggio di 10 puntate attraverso le voci dei ricercatori che ha raccontato alcuni dei tantissimi progetti nati e coordinati dal National Biodiversity Future Center.

Nella prima puntata, abbiamo chiesto a Chiara Anzolini e a Fabio De Pascale (Università di Padova) di spiegarci come funziona il Centro. Poi, con Luigi Musco (Università del Salento) abbiamo parlato del restauro degli habitat marini del Mediterraneo. Cristina Cipriano (Centro Euro Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici) ci ha spiegato come studia le foreste attraverso i modelli di distribuzione delle specie, ma ci ha anche raccontato della battaglia per l’approvazione della Nature Restoration Law.

Nella quarta puntata Debora Barbato (Università di Siena) ci ha portato per la prima volta nel mondo della citizen science, poi abbiamo intervistato Elena Canadelli (Università di Padova) sui progetti di digitalizzazione delle collezioni museali. Diego Fontaneto (CNR-IRSA) con i rotiferi ci ha fatto scoprire l’importanza della biodiversità a livello microscopico, mentre Stefano Negri (Università di Verona) ci ha spiegato come si studia la nostra biodiversità vegetale alla ricerca di molecole utili.

Con Patrizia Stipcich ci siamo immersi di nuovo nel Mediterraneo per capire come si studia l’impatto dei cambiamenti climatici sulla sua biodiversità. Nella penultima puntata, con Israa Mahmoud (Politecnico di Milano), abbiamo parlato di come si possono rendere le nostre città più sostenibili e biodiverse.

Tutte le interviste sono disponibili su Pikaia, nella playlist dedicata su YouTube e in quella su facebook, oltre che su LinkedIn e Instagram.


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