Riflessioni sull’eredità darwiniana attraverso le “Conversazioni sull’origine dell’uomo”

Conversazioni sull’origine dell’uomo

Pikaia ha letto per voi “Conversazioni sull’origine dell’uomo – 150 anni dopo Darwin”: un volume che, attraverso i contributi di storici, filosofi, e biologi evoluzionisti, racconta la natura prismatica della nostra storia

Chi si accosti per la prima volta all’opera darwiniana, ha da subito l’impressione che il suo autore conversi con il lettore in maniera genuina e diretta. I saggi di Darwin, infatti, rimandano ad uno stile discorsivo e avvincente: la trattazione dei temi più innovativi è resa fluida attraverso l’utilizzo di un gran numero di esempi provenienti dall’osservazione del mondo naturale, come anche dai resoconti della corrispondenza scientifica che l’autore intratteneva con i naturalisti europei e d’oltre oceano.

A questo conversare amichevole si rifanno i contributi al volume Conversazioni sull’origine dell’uomo 150 anni dopo Darwin (Espera, 2021), a cura della biologa Flavia Salomone (Università La Sapienza di Roma) e del paleoantropologo Fabio di Vincenzo (Università degli Studi di Firenze) e corredato dalle opere del pittore Pablo Echaurren. Le conversazioni, che i curatori instaurano con specialisti dell’evoluzione umana nei suoi vari aspetti (qui l’elenco degli studiosi e delle studiose che hanno partecipato), vogliono essere uno strumento divulgativo e altrettanto rigorosamente scientifico per comunicare i progressi che lo studio dell’evoluzione umana ha compiuto negli ultimi centocinquant’anni.

Perché partire da Darwin, e qual è l’importanza di trattare l’evoluzione attraverso un’opera quale il Descent of man and selection in relation to sex (1871)? Per districarci nella varietà e complessità dei contenuti trattati nel volume, può essere utile distinguere tre direttrici principali, secondo cui si snodano le riflessioni degli autori di Conversazioni sull’origine dell’uomo.



“Un fulmine a ciel sereno”: Darwin irrompe nella storia

Anzitutto, quella relativa al contesto storico. Ci troviamo nella seconda metà del XIX secolo. L’Inghilterra vittoriana conosce un’espansione economica e politica senza precedenti. La scienza, a partire dal secolo precedente, aveva fornito importanti contributi alla nascente potenza imperiale. Non da ultimo, lo sviluppo delle scienze antropologiche, fondato su un ampio uso (e abuso) della craniometria e della frenologia, aveva fatto sì che la colonizzazione di continenti stranieri fosse ulteriormente legittimata da una presunta inferiorità razziale dei popoli colonizzati.

Inoltre, il milieu creazionistico in cui la biologia era fortemente impastoiata (si pensi a Linneo, Goethe, Paley, Owen, e Chambers e al successo dei Bridgewater Treatises degli anni Trenta; Ospovat 1981) aveva impedito una reale comprensione della diversità del vivente. Di più: i timidi tentativi evoluzionistici erano ancora legati ad un’idea che qualsiasi cambiamento si sviluppasse secondo un ineluttabile progresso dal semplice al complesso (Pikaia ne ha parlato qui). Si riteneva che gli organismi evolvessero, ma il termine evolvere, nella sua originaria etimologia latina, indicava lo svolgimento predeterminato di un percorso. Era dunque inadatto a descrivere i processi contingenti dell’evoluzione darwiniana come la intendiamo oggi (Forestiero, 2015). Fu proprio tale ragione che indusse Darwin ad evitare il termine, e ad impiegare il più innocuo ‘trasmutazione’.

In tale contesto, si comprende come l’opera darwiniana cadde come un fulmine a ciel sereno sui suoi contemporanei. E se l’impatto de L’origine delle specie (1859) ebbe profonde conseguenze, ancor di più l’ebbe la pubblicazione de L’origine dell’uomo. Esponenti della cultura e della Chiesa attaccarono ferocemente l’opera, per il motivo principale che inserire la specie umana in una rete di processi evolutivi che interessano la totalità del mondo biologico è destabilizzante, e costringe a rivedere un’intera cosmologia intellettuale.

La flessibilità del programma di ricerca darwiniano

Siamo così condotti alla seconda direttrice, quella filosofica. La teoria darwiniana ha fornito alla moderna biologia un fondamentale contributo metodologico. Si tratta di un’intelaiatura che possiede sia al livello teorico che empirico  un grande potere unificante in grado, attraverso processi induttivi e deduttivi, di spiegare efficacemente i fatti già noti (il dato paleontologico, morfologico e la diversità variazionale) come anche di sviluppare previsioni o retro-previsioni (predictions e retrodictions), a seconda che si tratti di eventi futuri o di percorsi evolutivi già “sperimentati”. Inoltre, come evidenzia bene Telmo Pievani, ci troviamo di fronte ad una teoria che è stata sì riveduta e corretta, ma che mantiene ancora il suo nucleo originario intatto (discendenza con modificazione ed evoluzione per selezione naturale). Si tratta dunque di un programma di ricerca flessibile e rispondente alle più recenti teorizzazioni e scoperte empiriche (Pikaia ne ha parlato qui).

Ancora, con l’avvento della teoria darwiniana assistiamo alla caduta – perlomeno in biologia- di due altri pilastri del pensiero filosofico occidentale: l’essenzialismo e il finalismo. In una natura storicizzata, in cui gli organismi evolvono in poche migliaia di anni attraverso un’infinita e contingente esplorazione di possibilità (e dunque ateleologica), perde di significato riferirsi a delle essenze; queste, da intendersi come sostrati immutabili, che accoglierebbero i mutamenti come colori diversi potrebbero essere accolti da uno stesso soggetto materiale. Il principio chiave della diversità biologica, il DNA, non permette più un’ottica essenzialista e fissista attraverso cui studiare il mondo vivente. A dire il vero, in area anglosassone alcuni filosofi hanno tentato di coniugare una metafisica essenzialista con la moderna biologia; tuttavia, si tratta, a parere di chi scrive, di tentativi infruttuosi (si veda Austin, 2017).
Non da ultimo, è bene ricordare come la teoria darwiniana abbia portato a riconcettualizzare i domini dell’etica e dell’estetica, su più fronti. Attraverso studi di filogenetica ed etologia comparata è possibile interrogarsi sulla possibilità di far interagire la componente biologica con quella più prettamente culturale in campo normativo e artistico.

Occorre qui un’importante precisazione. È ormai acclarato che parlare di un’evoluzione biologica separata da un’evoluzione culturale sia errato e possa portare a sterili conclusioni, data la labilità del confine fra i due; nondimeno, è innegabile che anche le manifestazioni più complesse della nostra cultura abbiano indispensabili fondamenta biologiche e che scientificamente ed euristicamente possano essere indagate come tali. L’importante è non compiere il passaggio ulteriore: quello che conduce a fare di tali scoperte scientifiche il presupposto di discriminazioni ideologiche che di scientifico non
hanno nulla.

150 anni di scoperte

Possiamo così valutare i contributi apportati alla direttrice scientifica dalla teoria darwiniana. Negli ultimi 150 anni abbiamo assistito alla moltiplicazione del record paleoantropologico, allo sviluppo di tecniche di datazione radiometrica, della genetica, della linguistica comparata, e di nuove discipline come l’archeologia dei primati. Attraverso questa interdisciplinarità, che caratterizza il programma di ricerca paleoantropologico, è stato possibile ottenere un quadro sempre più completo dell’evoluzione umana.

Tra i progressi conseguiti, vi è senz’altro lo studio dettagliato della variabilità genetica intra- e inter-specifica. È stato così possibile studiare i flussi migratori nel corso della storia, con un importante risultato: quello di smantellare definitivamente la divisione dell’umanità in razze e, ancora una volta, dimostrare la contingenza delle strade percorse dall’evoluzione. Tale contingenza è stata resa ancor più evidente dalle analisi in campo archeologico e paleo-neurologico. Ad esempio, lo studio delle industrie litiche (Olduvaiana, Acheuleana e Musteriana per citarne alcune) e dei diversi generi di cognizione richiesti per la loro produzione, ha mostrato qualcosa di ben preciso: ovvero, che Homo sapiens si è confrontata in preistoria con altre specie umane in grado di competere efficacemente al livello cognitivo comportamentale.
Perde dunque ancor più di senso parlare di organismi inferiori e superiori, una distinzione, per altro, già criticata da Darwin. Al contrario, è opportuno studiare l’evoluzione umana nell’insieme di inestricabili relazioni inter- ed intra-organismiche. La nostra specie, inserita in una rete ecologica di culture diverse e di interrelazioni con specie umane oramai estinte, come anche con organismi non umani (si pensi solo ai batteri che abitano nel nostro corpo, la cui importanza ha contribuito a ridefinire il concetto di individualità biologica), diviene il prisma attraverso cui giungere ad una più adeguata comprensione del mondo naturale. Di qui l’importanza di Conversazioni sull’origine dell’uomo: leggere Darwin per conoscere la storia della biologia moderna; rileggerlo per conoscere un’altra storia, la nostra.

Bibliografia:

Austin, C.J. (2017), Aristotelian Essentialism: essence in the age of evolution, Synthese, 194: 2539-2556

Forestiero, S. (2015), Evoluzione e religioni, Roma: Carocci Editore, pp. 175

Ospovat, D. (1981), The development of Darwin’s theory, Cambridge: Cambridge
University Press, pp. 300

Salomone, F. e Di Vincenzo, F. (a cura di; 2021), Conversazioni sull’origine dell’uomo 150 anni dopo Darwin, Roma: Edizioni Espera, pp. 292