La biodiversità al centro |ep. 2| Come si restaura un habitat marino?
Alla vigilia della Giornata mondiale degli oceani, nella seconda puntata di La biodiversità al centro ci immergiamo nel mediterraneo col professor Luigi Musco (Università del Salento)
Nella prima puntata di La biodiversità al centro abbiamo parlato della missione del National Biodiversity Future Center con i ricercatori dello spoke 7, dedicato alla comunicazione.
Oggi cominciamo il nostro viaggio nella ricerca scientifica di NBFC partendo da spoke 2. Si tratta di uno dei due spoke dedicati alla biodiversità marina, e nello specifico si occupa di “soluzioni per invertire la perdita di biodiversità marina e gestire le risorse marine in modo sostenibile”. Per saperne di più, abbiamo intervistato il professor Luigi Musco dell’Università del Salento, che guida progetti innovativi di rigenerazione degli habitat marini.
Il professor Musco è professore associato di Zoologia all’Università del Salento, dove si è laureato e ha
conseguito il dottorato in Ecologia fondamentale. Esperto tassonomo (ha descritto 5 nuove specie di invertebrati), dopo il post-doc ha cominciato a occuparsi di restauro degli habitat marini al Consiglio Nazionale delle Ricerche di Castellammare del Golfo (Sicilia). In seguito è stato primo ricercatore presso la Stazione Zoologica Anton Dohrn di Napoli, un’altra delle istituzioni partner del National Biodiversity Future Center. Lì ha guidato il progetto ABBaCo (Restauro Ambientale e Balneabilità del SIN Bagnoli-Coroglio) dedicato allo studio dell’inquinamento industriale sui fondali e alla possibilità di restaurarli.
Il restuaro degli habitat marini
Ma che cosa vuol dire restaurare un habitat? Dal punto di vista concettuale non è diverso dal restaurare un monumento. Questo può essere danneggiato dal tempo o dall’inquinamento, e l’obiettivo del restauro è cercare di riportarlo a una condizione precedente.
“Esattamente allo stesso modo, gli habitat marini possono subire danni. Possiamo pensare ad esempio all’inquinamento industriale oppure attività molto aggressive di pesca, come ad esempio la pesca illegale del dattero di mare.”
Il dattero di mare è un mollusco bivalve che vive all’interno delle rocce calcare delle scogliere. Secernendo sostanze acide scava una nicchia al loro interno, entro la quale cresce molto lentamente. L’unico modo per pescarlo è distruggere la roccia, e per questo motivo la sua pesca è una delle attività più distruttive che esistano in ambiente marino.
Musco ci spiega che l’Università del Salento è storicamente impegnata nello studio dei danni provocati dai datterari sulle coste rocciose. I ricercatori vogliono capire se gli habitat sono in grado da soli di ritornare allo stato precedente a quell’impatto, oppure se è necessario aiutarli in qualche modo.
“Quello che stiamo effettuando noi, all’interno del National Biodiversity Center, è proprio cercare di capire se è possibile riportare in quelle zone le specie che creano naturalmente gli habitat, per esempio posidonia, le spugne, i coralli, e verificare se possono sopravvivere e a loro volta crescere per ricreare nuovamente gli habitat perduti.”
Le minacce agli habitat del mediterraneo
Il Mediterraneo è un hot spot di biodiversità, ma è anche un mare sottoposto a forti pressioni ambientali. Per esempio la pesca, ma anche inquinamento, cambiamento climatico e l’arrivo di specie invasive. Come si fa quindi a decidere a cosa dare priorità nel restaurare un habitat?
Innanzitutto, il restauro degli habitat deve avvenire solo se c’è l’assoluta certezza che gli impatti responsabili del loro degrado sono cessati. Nel caso del dattero di mare, per esempio, non avrebbe senso intervenire dove i datterari sono ancora attivi. Lo stesso discorso vale per i danni causati dall’inquinamento. Per questo motivo – spiega Musco – è necessario prima uno studio in grado di stabilire se l’impatto è cessato, e quindi stimare la probabilità che il restauro abbia successo.
Il surriscaldamento del Mediterraneo e lo stress a cui sottopone le comunità biologiche è di certo uno dei fattori da considerare nella scelta dei luoghi idonei al restauro. Per esempio, sappiamo che il riscaldamento aumenta la frequenza e intensità di tempeste e mareggiate, e queste possono distruggere in poche ore il lavoro dei ricercatori se il sito non è stato scelto con cura.
Insomma: è prima di tutto necessario proteggere il Mediterraneo, cioè ridurre gli impatti causati dalla pressione antropica. Quando questo non è sufficiente, e ci sono le condizioni giuste, allora il restauro diventa un’opzione.
Un giardino subacqueo del coralligeno
Nel 2021 Porto Badisco, vicino a Otranto, ha subito una violenta alluvione che ha danneggiato i suoi fondali. La massa di fango e detriti scesa in profondità ha creato un danno al coralligeno.
Si tratta di un insieme di organismi che producono strutture di carbonato di calcio, come le alghe coralline, i briozoi e i coralli. Musco ci racconta che per riparare i danni al coralligeno sui fondali di Porto Badisco i ricercatori del National Biodiversity Future Center hanno pensato di collaborare coi pescatori.
“Spesso i pescatori, involontariamente, portano su con le loro reti gli organismi del benthos, che crescono sul fondale a 30-50 metri di profondità. Dopo aver studiato le specie raccolte abbiamo deciso di contattare i pescatori per chiedere se volevano aiutarci. Abbiamo chiesto loro di conservare gli organismi accidentalmente raccolti con le reti e consegnarli a noi. In questo modo possiamo poi rimetterli in mare creando una sorta di giardino subacqueo del coralligeno, dove questo prezioso habitat ha subito i danni dell’alluvione.”
Alieni tra noi
Quando Musco lavorava a Castellamare del Golfo ha cominciato a conoscere il problema delle specie aliene invasive del Mediterraneo. Si tratta di quelle specie introdotte, volontariamente o meno, al di fuori del loro areale originario (aliene) che nel nuovo habitat sono capaci di moltiplicarsi (invasive) al punto da mettere in difficoltà le specie autoctone. Anche in Salento, in quanto costa più orientale d’Italia, ci sono problemi con questo tipo di organismi. Sono le specie provenienti dal Mar Rosso, e tra queste c’è Halophila stipulacea.
“Si tratta di una pianta aliena, una fanerogama lontana parente di Posidonia oceanica. E arrivata in Sicilia, in Campania, in Sardegna, e addirittura in Francia. Si sta espandendo rapidamente verso ovest e probabilmente la prossima ad essere colpita sarà la Spagna. E qui in Salento, in maniera veramente sorprendente, abbiamo notato che l’iniziale piccola prateria creatasi all’interno del porto di Otranto in qualche modo è servita da inoculo per portare pezzetti di questa pianta un po’ in giro per la costa, creando quindi vere e proprie grandi praterie, soprattutto nella zona a sud di Porto Cesareo e adesso anche all’interno dell’Area marina protetta.”
Secondo Musco, almeno in alcune zone, non è troppo tardi per intervenire. Un altro progetto del National Biodiversity Future Center prevede il tentativo di eradicare di Halophila stipulacea e di ripiantare al suo posto le piante mediterranee native Posidonia e Cymodocea.
“Credo sarà il primo tentativo, per quanto ne sappia, di cercare di restaurare un habitat a seguito dell’impatto causato dall’invasione di una specie aliena.”
Ma alcune di queste specie aliene, a volte invasive, sono qui per restare, come dimostra per esempio l’avanzata del granchio blu. Possiamo fare qualcosa per gestirle, e magari farlo in maniera economicamente vantaggiosa?
All’interno del National Biodiversity Future Center, che comprende anche uno spoke dedicato all’innovazione tecnologica, si sta appunto studiando come sfruttare Halophila stipulacea. La pianta è infatti ricca di metaboliti secondari (carotenoidi), quindi la sua biomassa potrebbe essere usata per esempio nella mangimistica. Ma la si potrebbe anche processare per estrarre i carotenoidi e usarli in prodotti farmaceutici e nutraceutici. In questo modo la specie invasiva può diventare una risorsa e agevolare anche i tentativi di restauro: le piante eradicate possono essere sfruttate economicamente, e al loro posto si può provare a ripiantare le piante native.
Col granchio blu sta succedendo una cosa simile. La specie è invasiva, ma è anche ottima in cucina e quindi sta sorgendo un’economia intorno alla sua pesca. Questo può succedere anche per altre specie, come il pesce scorpione (o pesce leone). Pteorois miles è una specie di scorfano tropicale e le sue punture sono dolorose, ma è pur sempre uno scorfano e quindi può entrare nei nostri piatti come già accaduto nel mediterraneo orientale. All’interno dello Spoke 2 numerosi colleghi del professosor Musco di vari enti, tra cui il CNR, se ne stanno occupando con ricerche mirate. In sostanza, a volte possiamo diventare noi i predatori naturali di queste specie invasive ostacolando o rallentando la loro diffusione.
Il restauro della Baia di Bagnoli
I fondali della Baia di Bagnoli sono uno dei luoghi più colpiti al mondo dall’inquinamento di origine industriale. Per oltre un secolo hanno subito l’inquinamento di un grande polo siderurgico. Ma com’erano quei fondali in precedenza? Oggi lo sappiamo grazie al DNA storico, cioè il DNA ambientale conservato nei sedimenti. Analizzando le carote di sedimento è stato possibile tornare indietro nel tempo: una volta i fondali della baia erano coperti da praterie formate di Posidonia oceanica, che sono probabilmente tra gli habitat di maggiore valore delle nostre coste.
All’interno del progetto ABBaCo (Restauro Ambientale e Balneabilità del SIN Bagnoli-Coroglio) i ricercatori hanno provato riportare lì Posidonia. Oggi il polo siderurgico non esiste più, ma i sedimenti sono ancora inquinati. I ricercatori hanno quindi preparato dei “cuscini” di pietra e su questi è stata fissata Posidonia. In questo modo, una volta calati in acqua, la pianta rimane isolata dal fondale.
Posidonia, che dopo alcuni anni è ancora lì. Certamente non è esplosa, non è diventata una enorme prateria, ma questo ci incoraggia a insistere con gli esperimenti. Perché se è in grado di sopravvivere in quei luoghi, probabilmente in futuro sarà possibile ricreare quelle praterie che non esistono più.
Una frontiera della ricerca
Per Luigi Musco il Mediterraneo è un mare unico. Immergendoci lungo le sue coste incontriamo un mosaico di colori e forme creato da quella moltitudine di organismi diversi che lo caratterizzano come hotspot di biodiversità.
“Da buon professore sono spesso seduto in scrivania, e per me è difficile andare giù insieme ai ragazzi. All’interno del National Biodiversity Future Center collaborano con noi una serie di giovani ricercatori veramente bravi e instancabili. E tra l’altro queste nostre attività stanno attirando tantissimo gli studenti. Abbiamo già cinque studenti che hanno chiesto di poter effettuare con noi la loro tesi di laurea perché sono appassionati di questa nuova frontiera della ricerca a mare che è appunto il restauro ambientale.”
Nella prossima puntata di La biodiversità al centro ci sposteremo sulla terraferma e parleremo di… foreste!
Project funded by the European Union – NextGenerationEU