La biodiversità al centro |ep. 4| Studiare la biodiversità con la citizen science

Citizen science Debora Barbato

Alcuni dei progetti promossi dal Centro Nazionale Biodiversità utilizzano la citizen science. Ma che di cosa si tratta, e come è possibile realizzarla al meglio? Ne abbiamo parlato con Debora Barbato, malacologa dell’Università di Siena impegnata nello spoke 3 del National Biodiversity Future Center

Non ci aspettiamo che uno scienziato sappia riparare un’automobile o recitare in un film, e allo stesso tempo non pretendiamo che qualunque cittadino o cittadina si metta a scrivere delle ricerche scientifiche. Eppure nella storia della scienza ci sono casi in cui il contributo dei non-professionisti è stato determinante

Charles Darwin, per esempio, era affamato di informazioni e campioni di prima mano sul mondo naturale, e – come dimostra la sua immensa corrispondenza – molto spesso li otteneva da allevatori, naturalisti dilettanti, vivaisti, viaggiatoriErano i suoi occhi e le sue orecchie, ma erano anche persone con un interesse comune con cui collaborare. Non è un esempio isolato. E oggi, anche grazie alle nuove tecnologie, tutto questo è diventato un fenomeno di massa: ciascuno di noi può contribuire alla ricerca scientifica, e tra gli esempi più collaudati ci sono proprio le ricerche sulla biodiversità.

Nella quarta puntata di La biodiversità al centro abbiamo parlato di citizen science, un modo di fare ricerca assieme ai cittadini che è espressamente citato nella missione dello spoke 3 del National Biodiversity Future Center: “valutazione e monitoraggio della biodiversità terrestre e d’acqua dolce e della sua evoluzione, dalla tassonomia alla genomica alla citizen science”.

Abbiamo intervistato la dottoressa Debora Barbato dell’Università di Siena. Debora è una malacologa e da anni, col gruppo di ricerca coordinato da Giuseppe Manganelli, partecipa a progetti di ricerca a livello locale e nazionale.

Ci occupiamo di tassonomia, di sistematica, di analizzare quelli che sono i gruppi critici di molluschi terrestri. Ci occupiamo anche di specie aliene. Stiamo portando avanti un progetto chiamato XenoDOMuS sulla diversità delle specie aliene nelle serre tropicali degli orti botanici italiani, e tra le varie cose ci occupiamo anche di citizen science.”

Che cos’è la citizen science?

Spesso la citizen science è tradotta come la scienza “fatta” dai cittadini, ma chiediamo a Debora di spiegarci meglio che cosa vuol dire e di provare a dare una definizione. Ci chiarisce subito che la citizen science non è qualcosa di nuovo, e nasce ancora prima che la scienza diventasse una professione dalla necessità di raccogliere osservazioni regolari e cadenzate sulla natura e sui suoi fenomeni. Per esempio in Giappone si raccolgono da centinaia di anni le informazioni sulla fioritura dei ciliegi proprio grazie all’apporto dei volontari. Dal momento che significa mettere insieme scienza e società è però difficile dare una definizione univoca, ci spiega la ricercatrice.

“Tra le definizioni più utilizzate ultimamente, quella che definisce come il coinvolgimento di volontari e scienziati in un’attività di ricerca scientifica collaborativa che genera nuova conoscenza, ma una conoscenza basata appunto su evidenze scientifiche”

Ma in che modo si crea questa collaborazione? Nella pratica la citizen science ha diversi livelli di coinvolgimento dei cittadini. Il primo livello è quello contributivo, cioè si chiede ai cittadini di registrare osservazioni. Negli altri livelli la collaborazione tra cittadini e scienziati diventa sempre più stretta, fino ad arrivare al livello più estremo dove i cittadini contribuiscono a definire il progetto di ricerca stesso (co-creazione).

levels of participation and engagement in citizen science projects adapted from
Uno schema che riepiloga i diversi livelli di coinvolgimento che possiamo trovare nella citizen science. Immagine: da Assumpção, Thaine Herman, et al. “Citizen observations contributing to flood modelling: opportunities and challenges.” Hydrology and Earth System Sciences Discussions, 26 July 2017, pp. 1-26, doi:10.5194/hess-2017-456. Licenza Creative Commons Attribution 4.0 International https://creativecommons.org/licenses/by/4.0

Gli ambiti dove si può usare la citizen science sono tantissimi, dalla fisica alla medicina. Uno dei progetti più celebri a livello internazionale, per esempio, è Galaxy zoo, che ha utilizzato l’apporto dei cittadini per mappare le galassie.

“Ma l’ambito forse più collaudato è quello del monitoraggio ambientale e del monitoraggio della biodiversità. In Italia, il Museo di storia naturale della Maremma con il suo direttore, Andrea Sforzi, è stato uno dei precursori della citizen science realizzando negli anni tantissimi progetti

Tra i tanti progetti italiani Debora ne cita due a cui abbiamo accennato su Pikaia: School of Ants, realizzato dall’Università di Parma in collaborazione con il Muse di Trento, che si occupa del monitoraggio delle formiche in ambiente urbano coinvolgendo anche le scuole, e Mosquito Alert che è dedicato al monitoraggio delle specie di zanzare.

Anche in Italia quindi la citizen science sembra sempre più rappresentata. Abbiamo già detto che è espressamente prevista come strategia dello spoke 3, e da poco è nata anche l’Associazione Citizen Science Italia per sostenerne la diffusione e lo sviluppo nel nostro paese. Come ci ha spiegato Cristina Castracani, coordinatrice di School of Ants, per il futuro l’ambizione è arrivare a un Centro nazionale per la citizen science, seguendo la stessa strada di altri paesi europei dove, per esempio, esistono già fondi di ricerca destinati a chi usa questo strumento.

I progetti di citizen science nati dalla pandemia

Assieme al Museo di Storia Naturale dell’Accademia dei Fisiocritici, il gruppo di ricerca di Debora ha curato la progettazione, la gestione e la responsabilità scientifica di diversi progetti di citizen science.

Il primo progetto è nato nel 2020: Clic – Chiocciole e Lumache In Città, che si occupa del monitoraggio a scala nazionale di chiocciole e lumache in ambiente urbano. Clic è nato dalla necessità del Museo dell’Accademia dei Fisiocritici di connettersi di nuovo con il pubblico durante il periodo pandemico, che in effetti ha stimolato in tutto il mondo nuove esperienze di citizen science.

Clic ha infatti proposto alla cittadinanza un’attività basata su evidenze scientifiche, ma che poteva coinvolgere i cittadini direttamente da casa. Ma il progetto rispondeva anche alla necessità degli scienziati di raccogliere dati e di rispondere a dei quesiti scientifici. Allo stesso tempo è stata un’opportunità per provare ad aumentare la conoscenza e la consapevolezza del grande pubblico su alcuni gruppi di organismi considerati poco carismatici, come potrebbero essere i molluschi terrestri.

Nel 2021 è poi nato il fratello minore di Clic: AIDA – Animali Intrusi Dentro le Abitazioni, che vuole monitorare la diversità di organismi vertebrati e invertebrati che vivono e convivono con noi all’interno delle nostre case.

Entrambi i progetti hanno usato iNaturalist, il “social network dei naturalisti”. Si tratta di una piattaforma web e app di libero accesso dove tutti possono caricare le proprie osservazioni naturalistiche. Sarà poi la ricchissima comunità di utenti (che comprende anche tantissimi esperti) a tentare l’identificazione dell’organismo fino al livello di specie. Si basa su un meccanismo di consenso: se i 2/3 degli utenti sono d’accordo sull’identificazione che viene fornita questa raggiunge il “livello di ricerca” e confluisce all’interno di tutti quei database mondiali, come il GBIF (Global Biodiversity Information Facility) che mettono a disposizione i propri dati per la comunità scientifica.

Debora Barbato ci spiega che il suo gruppo ha lavorato anche sulle problematiche legate al portare avanti delle attività di citizen science sui molluschi terrestri, animali appunto poco carismatici e quindi meno conosciuti. Per esempio, i dati raccolti dai cittadini sono di qualità? Analizzando le osservazioni inviate dai cittadini per la Toscana si sono resi conto che molte persone in effetti non erano familiari con questo gruppo di organismi. La maggior parte delle osservazioni erano di specie di medio-grandi dimensioni, quelle più accessibili, e soprattutto nelle foto inviate mancavano spesso i caratteri diagnostici necessari per permettere agli esperti un’identificazione.

“Quindi abbiamo deciso, anche insieme al museo, di portare avanti delle risorse aggiuntive. Abbiamo lanciato dei video divulgativi come la serie ‘Le ragazze del muretto‘ sui molluschi terrestri e in ambito urbano. Abbiamo anche lanciato delle rubriche sui canali social del museo, tra cui ‘Il mollusco della settimana‘ e ‘L’intruso della settimana‘, e varie brochure che potessero aiutare la comunità nell’identificazione di queste specie.”

La citizen science e il Centro nazionale biodiversità

Oggi, all’interno del National Biodiversity Future Center, la collaborazione tra i ricercatori dell’Università di Siena e il Museo di Storia Naturale dell’Accademia dei Fisiocritici è diventata ancora più forte, spiega la ricercatrice. L’obiettivo è di diffondere questi progetti nelle regioni dove non sono ancora arrivati e di continuare a fornire ai cittadini risorse per identificare meglio questi animali. E naturalmente i dati raccolti andranno restituiti alla comunità sotto forma di pubblicazioni scientifiche.

Nel 2022 è nato SBC – Siena BiodiverCity un progetto a scala locale sul monitoraggio e la valorizzazione della diversità urbana a Siena. Nell’ambito di SBC, quest’anno si è svolto il terzo BioBlitz. I Bioblitz sono iniziative importantissime per la citizen science: per un periodo definito (di solito 24 ore) esperti naturalisti e cittadini esplorano una certa area caricando le osservazioni sulle specie presenti.

“I nostri bioblitz partecipano alla City Nature Challenge, un’iniziativa mondiale che quest’anno ha visto la partecipazione di quasi 700 città in tutto il mondo, che a fine aprile si sfidano nella raccolta di osservazioni naturalistiche. A oggi nella città di Siena sono state raccolte più di 6000 osservazioni che afferiscono a circa 1500 specie diverse di organismi”.

CS4rivers – Citizen Science for rivers, invece, è un progetto di citizen science che è nato all’interno del National Biodiversity Future Center con la collaborazione i diversi dipartimenti dell’Università di Siena tra cui il Dipartimento di Scienze della Vita. Riguarda la biodiversità negli ecosistemi acquatici, in particolare quella dei fiumi. Il suo scopo è quello di creare un osservatorio sulla biodiversità fluviale, in particolare nel fiume Ombrone e i suoi tributari.

Per CS4rivers Debora e i suoi colleghi stanno sviluppando un protocollo di monitoraggio sui molluschi acquatici, sia specie aliene sia specie di interesse conservazionistico. Prevede la partecipazione di volontari che campionano un tratto di fiume con la tecnica del visual census: percorrendo un transetto di 50 metri per un metro, si contano individui che si osservano all’interno di quadrati di un metro per un metro. Questi campionamenti sono poi confrontati con quelli degli esperti.

All’interno di CS4rivers lo stesso approccio è usato per il monitoraggio della vegetazione ripariale e dei macroinvertebrati acquatici. I cittadini volontari sono formati sia con lezioni teoriche che in campo attraverso training periodici.

Come fare buona citizen science?

A Pikaia siamo da sempre fan della citizen science, perché oltre a produrre dati scientifici permette di avvicinare il pubblico alla scienza e alla natura. La citizen science però si basa sul lavoro non retribuito dei volontari: non c’è il rischio che diventi solo un modo per abbassare i costi di certe ricerche, che dovrebbero comunque essere effettuate? Inoltre, per la loro natura, i progetti di citizen science attirano regolarmente l’attenzione dei mass media: e se per i ricercatori diventassero solo un modo per farsi pubblicità, indipendentemente dal valore scientifico ed educativo? Abbiamo chiesto a Debora Barbato la sua opinione.

“Dare una risposta a questa domanda è molto complesso. Io credo che sia ovvio il successo della citizen science: un’attività inclusiva che ci permette con poco, a volte anche con un semplice smartphone, di partecipare ad un progetto e di arrivare al grande pubblico. E da questo possiamo anche far comprendere al pubblico stesso che per proteggere la biodiversità è necessario conoscerla in modo capillare.”

“Dobbiamo ammettere – prosegue la ricercatrice – che è un’attività conveniente, che può raccogliere dati a scale spaziali e temporali inimmaginabili. In un mondo come il nostro, dove le risorse per la ricerca scientifica sono sempre meno e dove la competizione per l’accesso a questi dati è sempre più forte, questo sì, potrebbe essere una un elemento importante, ma non deve essere l’elemento fondamentale.”

Secondo la ricercatrice fare citizen science non dovrebbe tradursi in “io sono l’esperto che fa scienza, io sono il detentore del sapere: dammi i tuoi dati”. Bisogna invece cercare una simbiosi mutualistica dove sia i ricercatori che i cittadini hanno dei benefici. Fare buona citizen science si può, per esempio seguendo il decalogo elaborato dalla ECSA, la European Citizen Science Association. Ogni progetto, i suoi responsabili, e la stessa comunità dovrebbero seguire queste buone pratiche. E il settimo punto del decalogo riguarda appunto i dati, che dovrebbero accessibili e aperti (open science). Se questo non è sempre possibile, per esempio per motivi di privacy, bisogna comunque restituire questi dati sotto forma di elaborazioni, cioè evidenze scientifiche attendibili.

Anche la qualità del dato è un aspetto molto caldo della citizen science, ma gli studi ci dicono che se i cittadini sono correttamente formati possono produrre osservazioni che sono in certi casi simili a quelle degli esperti. Ma la presenza dell’esperto rimane fondamentale – sottolinea la dottoressa – e deve essere un elemento centrale di questo approccio.

In questo contesto, durante il Primo forum Nazionale della Biodiversità, è nato all’interno del National Biodiversity Future Center un tavolo trasversale sulla citizen science che coinvolge tutti gli spoke del Centro Nazionale Biodiversità, anche per diffondere queste buone pratiche.

“Se i risultati sono attendibili e sono restituiti anche alla comunità come forti evidenze scientifiche, l’impatto che se ne ha incredibile. C’è un apprendimento sociale perché dalla conoscenza si genera consapevolezza e se sono consapevole divento responsabile. Molti cittadini ci dicono: ‘adesso vedo ciò che mi circonda con occhi diversi’ e questo è un risultato. […] E poi ha un impatto politico: i risultati scientifici possono tornare indietro alla comunità come opere concrete in ambito di monitoraggio ambientale, di protezione della diversità. E noi, prima di essere scienziati, siamo tutti cittadini della comunità. È un percorso lungo, di certo più lungo, ma nella giusta maniera può portare a dei risultati decisamente soddisfacenti.”

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