La genealogia della morale secondo Hanno Sauer: uno sguardo a “L’invenzione del bene e del male”

L'invenzione del bene e del male Hanno Sauer

Dalla biologia evoluzionistica alla teoria dei giochi, dall’antropologia alle scienze storiche e sociali, il testo prende in esame un repertorio molto vasto di conoscenze per ricostruire la storia della morale

Titolo: L’invenzione del bene e del male.

Autore: Hanno Sauer.

Editore: Laterza.

Anno: 2023 (edizione originale: 2023).

Traduttrici: Barbara Baroni e Marina Pugliano.

Pagine: 369.

ISBN: 9788858152003 (versione ebook: 9788858154069).

Prezzo: 24,00 € (versione ebook: 14,99 €)

Tra i corridoi universitari dei corsi umanistici l’espressione “genealogia della morale” richiama subito alla mente uno dei più importanti testi della filosofia contemporanea: la Genealogia della morale di Friedrich Nietzsche. La tesi di metodo alla base di questo testo del 1887 consiste nello studiare i valori morali attraverso la ricostruzione storica della loro formazione e diffusione. La morale va studiata, quindi, comprendendo come è nata e perché si è diffusa. Hanno Sauer, con L’invenzione del bene e del male, si prefissa un doppio obiettivo molto simile: spiegare come è emerso il complesso comportamento prosociale (cioè disposto alla cooperazione) proprio degli esseri umani e come le questioni etiche emergenti ora nella contemporaneità siano intimamente legate alle dinamiche della nostra storia evolutiva e culturale.

Un libro ambizioso

Questo libro non cerca di proporre una soluzione a specifici dilemmi etici, ma riflette sulla morale, sulla sua storia; in filosofia questa è una distinzione importante, poiché significa che non abbiamo davanti un libro di morale, ma un testo che tratta di tematiche metaetiche. Abbiamo già recensito su Pikaia un testo di metaetica, L’evoluzione della morale per selezione naturale di Andrea Guardo, un testo di filosofia specialistico con una tesi precisa. Il testo di Sauer, invece, non si interessa di uno specifico problema accademico, ma ha un programma molto più ambizioso: ricostruire una vera e propria storia della morale. E quindi vi è la necessità di dialogare con una rete di discipline e saperi estremamente larga. Per questa ragione, sparse nel testo si possono trovare numerosissime tesi principali e tesi “ausiliarie”, dei campi più disparati. Quando si prendono in esame così tanti temi, il rischio è che ci possa essere imprecisione in alcuni dettagli. In più punti è possibile trovare affermazioni su alcuni temi scientifici, non condivise da alcuni esperti. Inoltre, alcune questioni emerse nel libro sono tutt’ora terreno di un acceso dibattito nel settore scientifico specializzato (un esempio è fornito da un recente studio sui ruoli di genere nella preistoria, discusso qui su Pikaia).

Al netto di tutte le questioni particolari, le tesi fondamentali portate avanti da Sauer sono due e rispondono ai due obiettivi esposti all’inizio:

1) I valori più basilari e le capacità cognitive sociali di noi esseri umani sono frutto di processi causati sia dall’evoluzione biologica che da quella culturale, le quali hanno favorito la cooperazione all’interno di piccoli gruppi;

2) Il clima di divisione del dibattito pubblico su alcune questioni morali è comprensibile a partire dalla nostra storia evolutiva; per Sauer, però, questa divisione è un fenomeno superficiale, da superare grazie a un substrato profondo di valori universali, possibile fondamento di una futura comprensione reciproca.

Il testo può esser diviso in tre parti: la prima parte, dal capitolo 1 al 3, si focalizza sull’evoluzione delle nostre capacità sociali; la seconda parte, capitoli 4 e 5, tratta dell’emergenza delle disuguaglianze nelle prime società complesse e della comparsa, avvenuta in epoca moderna nelle società europee, di un nuovo bizzarro costume morale, definito “WEIRD” (acronimo di western, educated, industrilized, rich and democratic); la terza e ultima parte, dal capitolo 6 fino alle conclusioni, tratta delle più recenti questioni morali e sociali sorte in Occidente (Sauer non lo sottolinea molto nel testo, ma la sua attenzione, andando avanti, si focalizza sempre di più sulle culture e sulle società occidentali).

Come ultima premessa, è bene definire cos’è la morale secondo Sauer: a p. 46 si legge che è un meccanismo psico-sociale, che rende possibile la cooperazione. Per dirla in modo più chiaro, la morale, nel suo senso più ampio possibile, è quel complesso di comportamenti, capacità sociali, sentimenti e fattori culturali, che determinano le nostre modalità di relazioni con gli altri. Lungo il testo, Sauer si riferisce a tutti questi fenomeni o solo a parte di questi, quando parla di morale. Essa non è quindi intesa come una teoria di qualche filosofo; ma è tutta quella rete di dinamiche psicologiche e sociali che condizionano la nostra condotta nella vita in comune.

Animali estremamente socializzati

Sauer inizia la sua storia della morale dalle ricostruzioni dei paleoantropologi sulla comparsa degli Hominini (5 milioni di anni fa). In un ambiente simile all’attuale savana, esposti ai predatori e con la necessità di rimanere uniti in un ambiente dispersivo, i nostri antenati hanno cominciato ad adottare una serie di strategie, tra cui anche una maggiore collaborazione in gruppi sempre più grandi. Questa esigenza di cooperare, insieme ad altri fattori, ha scatenato secondo Sauer una serie di cambiamenti radicali della nostra specie, che ha visto soprattutto l’emergenza di tre grandi cambiamenti: un istinto morale incline alla cooperazione interna al gruppo; l’emergenza della punizione come comportamento deterrente e la conseguente autodomesticazione umana; l’emergenza di una evoluzione culturale cumulativa, che per Sauer è la vera radicale differenza tra l’animale uomo e gli altri animali non umani.

Già da questo elemento si può vedere una differenza di impostazione nella spiegazione rispetto a un’altra riflessione che mette insieme evoluzione ed etica, quella dell’antropologo Frans de Waal, recentemente scomparso. Sauer, a differenza dell’antropologo olandese, non cerca di portare avanti una comparazione tra i nostri cugini viventi più stretti, cioè le altre grandi antropomorfe, e noi specie homo sapiens. La nostra forma di cooperazione, le nostre capacità di frenare le nostre spinte egoistiche sono radicalmente diverse dalla cooperazione degli scimpanzé; non si basano su empatia o su schemi comportamentali rigidi, ma su un complicato sistema di valori ereditati e su complessi sistemi sociali. Sauer non nega pensiero e cognizione agli animali, nemmeno nega la presenza di un’organizzazione sociale al di fuori della nostra specie. Tuttavia, noi e tutti gli altri animali siamo diversi; il metodo comparativo di de Waal secondo Sauer non riesce a cogliere la reale specificità della specie umana. Per sintetizzare, dove de Waal vede un sostrato comune tra noi e le altre antropomorfe e delle differenze specie-specifiche, Sauer vede un abisso incolmabile. Questo tipo di impostazione è una scelta, che va tenuta a mente nella lettura delle prime parti del testo e a cui può essere mossa l’accusa di antropocentrismo. In questa sede non possiamo affrontare la fondatezza di questa possibile critica, lasciando al lettore l’analisi; mi limito solo a segnalare un esperimento mentale dubbio alle pagine 120-122.

Il problema che Sauer espone in questa prima parte del libro, è un problema classico delle scienze evoluzionistiche e in quelle sociali: la ricerca delle condizioni che permettono la così forte stabilità della cooperazione umana. La cooperazione è un vero e proprio enigma: come è possibile, dal punto di vista evolutivo, che si diffonda un comportamento spesso meno vantaggioso di una scelta egoistica (o che addirittura danneggia il soggetto che lo compie)? L’evoluzione umana ha dovuto quindi adottare una serie di complesse strategie, affinché il lavoro di gruppo non fosse disfatto dalle spinte egoistiche dei singoli. Ovviamente le soluzioni trovate non devono essere perfette, ma soltanto sufficienti a far sì che il lavoro di gruppo non soccomba a egoismi e tradimenti.

Sauer non propone una teoria esaustiva del successo della cooperazione, ma ricalca e unisce svariate teorie ed ipotesi che insieme gettano luce su come nella specie umana si configuri e si stabilizzi la prosocialità. Le teorie prese in considerazione sono, ad esempio, la selezione di gruppo, la selezione parentale e la teoria dei giochi. Quest’ultima fornisce un aiuto importante nel mostrare come, nel giusto contesto e con una reiterazione di relazioni potenzialmente cooperative, anche comportamenti altruistici, seppur meno vantaggiosi nel breve periodo rispetto alle strategie egoistiche, possono nel lungo periodo portare vantaggi a chi li adotta. Compresa la possibilità del vantaggio cooperativo nel giusto contesto, occorre però ancora comprendere quali condizioni specifiche abbiano favorito in Homo il verificarsi di un contesto favorevole per la prosocialità.

Un elemento favorevole può essere la presenza di un gruppo, come suggerisce la teoria della selezione di gruppo portata avanti da diversi biologi evoluzionistici. Per Sauer, la base della morale umana è stata condizionata dalla presenza di comunità stabili all’interno della popolazione umana. I gruppi aumentavano le proprie possibilità di sopravvivenza e quella degli individui, se vi era una forte cooperazione interna tra i membri del gruppo. Abbiamo così sviluppato una morale del gruppo: tendiamo a dividere gli individui tra membri interni ed esterni al nostro “clan”, a cooperare e a essere più altruisti con chi riconosciamo “appartenente a noi”.

Altro fattore che può determinare la stabilizzazione di comportamenti altruistici è la reputazione: gli individui appartenenti a un gruppo possono modulare la frequenza e le modalità di cooperazione con gli altri membri del gruppo, conoscendo la reputazione di questi ultimi. Membri molto cooperativi con una reputazione alta incontreranno una maggiore disposizione alla cooperazione rispetto a membri poco cooperativi o imbroglioni con una pessima reputazione. Altra strategia essenziale per la deterrenza di atti egoistici, dannosi per la comunità o per altri individui, è la possibilità di punire trasgressori e free riders (ossia chi gode del lavoro di gruppo, ma non collabora). Per Sauer la punizione – con annesse la nostra rabbia verso le ingiustizie e i vari sistemi sociali punitivi – è un’altra grande tappa della formazione della nostra morale: permette la cooperazione in gruppi sempre più grandi, dove non per forza ciascuno membro conosce tutti gli altri o la loro reputazione.

L’insorgere della pena porta anche a una strana mansuetudine, che, collegata ad altre caratteristiche, ha portato molti scienziati a ipotizzare un processo di autodomesticazione della specie umana. La punizione ha, quindi, stabilizzato ancor di più la cooperazione e ha creato un nuovo essere umano, domesticato e più avverso ai torti e alle ingiustizie. Vi è, però, un aspetto particolare della pena: stabilizza qualunque tipo di relazione o di comportamento, non per forza una cooperazione egualitaria e libera. La punizione può stabilizzare anche disuguaglianze, sistemi oppressivi e regimi violenti.

La prosocialità umana, essendo una componente sociale della nostra specie, non può che avere una profonda relazione, circolare e virtuosa, con il nostro modo di creare e diffondere cultura (intesa nel senso più ampio di conoscenza trasmessa da un individuo a un altro). La morale e i comportamenti prosociali permettono una maggiore interrelazione nel gruppo o tra i gruppi, favorendo la diffusione e l’apprendimento culturali; viceversa, la diffusione cultuale permette l’evoluzione di determinati codici morali e una più facile identificazione del gruppo (utile quindi alla morale di gruppo). Per Sauer, qui si attesta il vero scarto tra noi e gli altri animali, quel qualcosa che molti filosofi avevano attribuito alle caratteristiche più disparate. Seppur non siamo gli unici animali culturali, siamo per Sauer gli unici con una evoluzione culturale cumulativa. Gli animali non umani possono modificare il loro comportamento mediante cultura, ma non possono cumulare i cambiamenti culturali che avvengono nelle loro comunità. Non possono cioè sommare in maniera virtualmente infinita le modifiche del proprio patrimonio culturale. Gli umani sì.

Due conseguenze dell’evoluzione culturale umana, importanti soprattutto in riferimento ai problemi delle società odierne:

1) La maggior parte dei nostri comportamenti deriva da conoscenze apprese socialmente, le quali non sono altro che un momentaneo punto di arrivo di una millenaria storia di riproduzione e modificazione di comportamenti appresi. Molta della nostra vita quotidiana assume l’aspetto che ha, perché utilizziamo conoscenza apprese da altri. Per questa ragione è bene dubitare per Sauer di un mito della nostra cultura moderna: il pregiudizio individualistico, cioè quel pregiudizio per cui l’individuo crea da sé la maggior parte del proprio patrimonio di idee.

2) Questa forte dipendenza dalle conoscenze forniteci dagli altri e il carattere cumulativo della cultura fanno sì che noi ci dobbiamo spesso “fidare” di conoscenze di cui altri ci informano, e che non possiamo provare. Nel contesto di qualsiasi società, non solo quella contemporanea, è impossibile cercare di provare ogni singola conoscenza che utilizziamo (e tutte le conoscenze pregresse che hanno portato a quel singolo prodotto culturale). Anche nella scienza non è immaginabile ripercorrere come singolo scienziato tutti gli esperimenti e le verifiche svolte nella disciplina di cui si è esperti. L’atto di fiducia di un sapere non individualmente testabile è definito nell’ambito della filosofia della scienza fiducia epistemica ed è un elemento essenziale per capire il nostro modo di produrre sapere.

Questi tre elementi (cooperazione interna al gruppo, punizione e domesticazione, evoluzione culturale cumulativa) sono i processi principali che hanno plasmato le nostra facoltà morali.

L’emergere della disuguaglianza e la svolta moderna WEIRD

Non è però sufficiente la sola configurazione della nostra bussola morale, dataci dall’evoluzione, a farci comprendere le importanti questioni etiche che oggi affrontiamo. A fianco dei grandi processi evoluzionistici, vi è una storia di società e popoli, che ha profondamente trasformato le nostre relazioni interpersonali. Dobbiamo quindi focalizzare la nostra attenzione su cause più prossime e passare dai grandi tempi dell’evoluzione al “breve” (relativamente parlando) tempo della storia.

Sauer, seguendo le ricostruzioni più accreditate oggi della paleoantropologia, inizia a soffermarsi sulle cosiddette comunità di cacciatori-raccoglitori: in esse vigeva un’organizzazione estremamente egualitaria sotto tutti i punti di vista (sia materiali sia sociali). Le risorse, spesso molto scarse, erano distribuite in maniera più equa; cure parentali e scelte collettive del gruppo erano attività svolte da ogni membro della comunità. Nel Neolitico, in alcuni punti del globo, si è verificata l’emergere di una sovraproduzione delle risorse e di una conseguente (anche se modesta) abbondanza, la quale in alcuni casi ha favorito l’emergere di società complesse. Queste società erano composte a volte da migliaia di individui, con ruoli spesso specializzati.

In alcuni casi – non tutti, Sauer fa l’esempio dei Nativi Americani in cui vi era una relativa uguaglianza nella popolazione – questa complessità è stata accompagnata fin da subito dall’appropriazione del surplus di risorse da parte di una determinata classe, che spesso ha usato logiche di dominio e violenza per la sua affermazione. Non che le comunità di cacciatori e raccoglitori fossero prive di soprusi e violenze, ma adesso molte società erano strutturare attraverso un sistema fondato su dominio e disuguaglianze sociali. L’evoluzione delle società, seppur passando tra sistemi economici e sociali molto diversi, ha mantenuto questi elementi strutturali (per strutturali si intende elementi essenziali per l’organizzazione di un sistema). Per Sauer, questa storia millenaria di egemonia è un fattore da tenere a mente in riferimento al contemporaneo impegno sociale nella lotta alle disuguaglianze, le quali per il loro carattere sistemico e radicato sono tutt’altro che facili da sradicare.

Una svolta importante si presenta nella modernità, dove è andato emergendo un profilo di individuo sociale molto diverso da quello diffuso in precedenza nelle varie società occidentali e in parte atipico rispetto al nostro percorso evolutivo: l’individuo sociale WEIRD. Questo nuovo sociotipo occidentale ha come valori l’universalismo morale, è per una prosocialità impersonale (cioè accetta spesso di collaborare con estranei) ed è molto meno legato al proprio nucleo familiare. Riprendendo le teorie di Heinrich, le cause di questi nuovi costumi morali sono da ricondurre alle riforme su matrimonio e famiglia portate avanti dalla Chiesa nel medioevo. Nasce la famiglia proto-borghese, molto piccola, e si sviluppa uno spazio sociale esterno più impersonale e dai valori più individualistici. Le conseguenze a livello sociale sono la maggiore disposizione dei membri della comunità al commercio e l’emergere di istituzioni impersonali (cioè che non guardano a legami familiari). Seguendo sempre Heinrich, Sauer presenta una tesi molto forte dal punto di vista storico e sociologico: l’evoluzione culturale WEIRD è stata fondamentale per la rivoluzione economica del capitalismo.

I cambiamenti determinati dall’ondata WEIRD hanno reso, secondo Sauer, sempre più impellenti determinate istanze, sentite sempre più come necessità a causa del nuovo tessuto sociale costituito da reti di relazioni sempre più internazionali. Soprattutto, si chiedeva una maggiore garanzia delle libertà individuali e commerciali e un’istanza di uguaglianza (vediamo quindi come vi sia un circolo virtuoso tra costume morale e questioni politiche, con continui assestamenti e influenze reciproche). La svolta WEIRD ha portato a ciò che Sauer definisce una doppia promessa di uguaglianza e libertà.

I grandi problemi morali sollevati in Occidente

Questa doppia promessa, però, negli anni successivi non è stata mantenuta da istituzioni e società. Ancor di più se si guarda a tutta una schiera di individui esclusi e discriminati, i quali non godevano e non godono tuttora di libertà e pari opportunità. Questo ovviamente stride con una società, che fa invece di queste istanze il proprio nucleo valoriale fondante. Dalla seconda metà del Novecento ci si è focalizzati sempre di più su questa condizione di ingiustizia e si è chiesto in maniera sempre più forte che la doppia promessa fosse realmente mantenuta per tutti.

In filosofia morale si parla di allargamento del perimetro della morale: cioè un allargamento della schiera di persone che godono di piena considerazione morale e che vedono i propri bisogni considerati e i diritti garantiti. Se prima questo privilegio era proprio solo di piccole élite, si chiede ora di riconoscere lo status di soggetto morale a schiere sempre più grandi della popolazione, fino all’intera umanità (e alcuni movimenti chiedono di estendere anche oltre la specie, quindi a tutti gli animali, tale status). Se ci pensiamo, per la nostra morale di gruppo è paradossale: nella dialettica interno/esterno, abbiamo deciso di includere tutti e di escludere nessuno (idealmente parlando e non a nome di tutte le persone). Perché questa richiesta è diventata così impellente proprio dal dopoguerra? Una possibile risposta per Sauer è che questi i valori di libertà e uguaglianza siano vissuti come impellenti dalla popolazione, quando le condizioni di vita migliorano dal punto di vista materiale e si ha una relativa garanzia di soddisfacimento dei bisogni minimi. Si è avuto allora, sia a livello di movimenti politici sia a livello di riflessione collettiva, un doppio processo di indagine della discriminazione sistemica e di richiesta di cambiamento sociale.

In psicologia e nelle scienze sociali, a un paradigma classico dell’uomo padrone delle sue azioni si è sostituito il paradigma del situazionismo: i nostri comportamenti sono molto più frutto del contesto presente che di reali o presunte qualità personali. Si è andati quindi a minare alle fondamenta quel pregiudizio individualistico, prima esposto. A questo nuovo sforzo teorico si affianca in parallelo il richiamo alla società tutta, soprattutto ai centri di potere, di riconfigurare le proprie strutture, istituzioni e pratiche, affinché l’individuo sia messo nelle migliori condizioni per la conduzione della propria vita.

In questa stagione emergono una nuova e importantissima stagione di riflessioni femministe – una fra tutte le riflessioni sul concetto di intersezionalità di Angela Davis – e movimenti di critica sociale come il movimento Woke (letteralmente “stare all’erta”; indica per i suoi sostenitori l’esser attenti a tutte le discriminazioni sociali, ma spesso in ambiente statunitense gruppi di destra utilizzano il termine in maniera distorcente e spesso derisoria). La scoperta che comportamenti e pratiche ritenute, a torto, neutre siano in realtà offensive e discriminatorie, è per Sauer un’operazione morale non solo giusta, ma anche esemplificativa del nostro tempo. Si sta oggi verificando un processo di cambiamento nella moralizzazione dei costumi: mentre alcuni atteggiamenti sono ora condannati come immorali, parallelamente si attua una de-moralizzazione di molte pratiche e comportamenti prima stigmatizzati. Stiamo, cioè, riformulando le categorie di cosa ci indigna e cosa no.

Passiamo ora ai giorni nostri, il reale argomento che preme all’autore sin dalle prime pagine. Innanzitutto, appare sempre più evidente come disuguaglianza e discriminazioni siano ancora molto radicate nella nostra società. Se si guarda a livello globale, assistiamo a disuguaglianze economiche sempre più marcate: l’autore riporta come esempio un referto Oxfam del 2020, secondo cui i 22 uomini più ricchi del mondo detengono una ricchezza equivalente a quella di tutta la popolazione femminile africana (p. 182). Le nuove istanze del secondo Novecento sono ancora al centro del dibattito morale e continua il lavoro di affinamento degli strumenti di riconoscimento delle discriminazioni e delle disuguaglianze sistemiche (segnalo al lettore tra i testi citati nel testo: Gli uomini mi spiegano le cose di Rebecca Solnit ed Epistemic injustice di Miranda Fricker).

Nel dibattito odierno assistiamo anche a una profondissima spaccatura tra opinioni diverse. A un vero e proprio surriscaldamento del nostro discorso morale. Perché tutta questa divisione? Per Sauer, oltre all’analisi storica e sociale, la situazione attuale deve essere compresa anche attraverso i concetti e i fenomeni che abbiamo trovato e utilizzato in precedenza. Per Sauer giocano un ruolo, soprattutto, la nostra cooperazione orientata al gruppo e il nostro essere una specie culturale.

L’appartenenza al gruppo nelle dispute contemporanee si tramuta soprattutto nel farsi riconoscere tramite le idee del gruppo di appartenenze: è l’identità di gruppo, che porta a dividerci in fazioni sempre più riconoscibili e quindi sempre più dicotomiche. Questo per Sauer ha portato anche movimenti come quelli woke a radicalizzare sempre di più il proprio discorso e ad avere, quindi, una risposta più feroce dai suoi avversari politici.

Nel dibattito di oggi non assistiamo soltanto a un’esibizione sempre più marcata del nostro schieramento. Abbiamo sempre più spesso, tra le diverse fazioni, descrizioni radicalmente differenti dei fatti. Raccontiamo il mondo in modo molto diverso, spesso affidandoci a notizie completamente false. Le cosiddette fake news sono sempre esistite, ma oggi secondo Sauer ne troviamo di più e sempre più facilmente riconducibili a determinati gruppi politici. Perché? Secondo l’autore ciò è da attribuirsi a un problema di fiducia epistemica. Abbiamo visto che in ogni società non possiamo non affidarci alle conoscenze degli altri nel quotidiano e nella ricerca. Ciò comporta che molta della nostra conoscenza è di secondo ordine: deriva da altri. In un contesto come quello odierno, con mezzi di comunicazione globali e un ambiente sempre più intasato di informazione, non è più facile comprendere chi è un affidabile dispensatore di conoscenze. Dato che come società e come istituzioni non abbiamo trovato un modo efficace di indicare alla popolazione degli affidabili dispensatori di saperi, spesso finiamo per fare scelte diverse sulle nostre fonti di conoscenza. Da qui sorge un problema molto grave a livello di discorso democratico, dato che con conoscenze completamente diverse le parti in conflitto non riescono a trovare un terreno comune di discussione. La maggioranza dei dibattiti pubblici odierni è per Sauer affetto da questo problema epistemico (cioè un problema relativo alle conoscenze).

Nonostante il quadro sopra esposto, per Sauer dobbiamo essere ottimisti: per migliorare la situazione possiamo sempre riferirci a una serie di valori basilari universali, condivisi da tutti noi esseri umani. L’attuale livello di discordia è più legato a problemi di fiducia epistemica e di astio, più che a un vero scontro di valori. Sauer non vede neanche impossibile un miglioramento sul fronte delle questioni sociali. Anche se disuguaglianza e discriminazioni sono sistemiche, per Sauer nella storia c’è stato un progresso nelle condizioni generali di vita, seppur incompleto. Quindi non si deve disperare per miglioramenti futuri.

Superare le barriere tra scienze umane e scienze naturali

Il testo di Sauer si pone domande ambiziose in ambito metaetico, usando una prospettiva storico-evoluzionistica. Dalla biologia evoluzionistica alla teoria dei giochi, dall’antropologia alle scienze storiche e sociali, il testo prende in esame un repertorio molto vasto di conoscenze. Anche dal punto di vista degli studi filosofici, L’invenzione del bene e del male prende in esame molte questioni aperte, come ad esempio l’evoluzione culturale e la fiducia epistemica. Da questo punto di vista, il libro rappresenta un’ottima occasione di approfondimento per studenti e appassionati di filosofia: vi sono problemi filosofici e filosofi che spesso non sono trattati nei corsi di laurea, ma che sono parte dell’attuale dibattito specialistico. La bibliografia finale (di ben 24 pagine) è un ottimo bacino da cui attingere. Vi è anche un buon numero di autori citati che espongono posizioni diverse da Sauer, sicuramente molto importante per un testo che affronta tante temi di dibattito. Abbiamo visto, ad esempio, come Frans de Waal abbia un’impostazione molto diversa da quella di Sauer nella comprensione delle origini evolutive della morale. O ancora, sull’insorgere del capitalismo ci sono tante e diverse ricostruzioni storiche. Anche le contemporanee riflessioni sociali sono molto diversificate: ad esempio, molte riflessioni di stampo femminista portano avanti una critica molto più decisa alla società in cui viviamo e considerano, come altri movimenti critici dell’attuale sistema, necessario un cambiamento radicale a livello di società per raggiungere le promesse di uguaglianza e libertà.

Un’esigenza che emerge dalle pagine del testo è quella di superare le barriere tra scienze umane e scienze naturali: domande come quelle intorno alla nostra morale non possono, con le conoscenze attuali, che cercare di avere risposte di carattere multidisciplinare. Siamo di fronte alla difficile questione del rapporto tra fattori “naturali” e fattori “culturali”, con tutte le difficoltà che derivano non solo dalla descrizione della loro interrelazione, ma anche dalla semplice definizione di tali fattori.

In un certo senso, L’invenzione del bene e del male incarna molte esigenze dei dibattiti contemporanei di filosofia, e anche del singolo individuo. Credo che tutti noi, chi più e chi meno, ci siamo chiesti molte domande presenti in questo libro.